Elena è nata in Ucraina, è medico con specializzazione in anestesia e rianimazione. Ma Elena non lavora in ospedale, Elena sino a pochi giorni fa faceva la badante per una facoltosa famiglia bresciana.
Niente contratto, in nero, sei persone di cui occuparsi. Le chiedono il test sierologico, che fornisce senza problemi.
Tutta la famiglia era contagiata dal Covid-19. Si ammala anche Elena, ma le vengono negate le cure. Solo quando le sue condizioni peggiorano viene visitata. Ha bisogno di ricovero e di ventilazione assistita, ma i suoi datori di lavoro rifiutano di chiamare un’ambulanza per lei. Stremata, lascia la casa in cerca di aiuto. In strada si accascia sulla sua valigia, sviene: sono i passanti a chiamare l’ambulanza.
In ospedale le assegnano un codice giallo, nonostante sia in condizioni gravi. Viene etichettata come “clandestina” e non viene ventilata.
L’aggravamento delle sue condizioni ne provoca infine il ricovero in terapia intensiva: per tre giorni, in stato d’incoscienza, la vita di Elena è appesa ai macchinari. Non appena si riprende, l’ospedale le consegna il conto: deve pagare per le cure alle quali viene sottoposta. Senza reddito, Elena non può pagare.
In questi mesi i lavoratori e le lavoratrici domestiche – badanti, colf, stiratrici, babysitter, tuttofare – sono stati tra i più colpiti dalla crisi.
Sono quasi tutti in nero, le paghe sono di quattro euro l’ora.
Molti si sono trovati in strada, senza tetto e senza reddito, senza neppure la possibilità di tornare nei paesi d’origine.
Tanti si ammalano e devono affrontare senza alcuna tutela la malattia.
Elena e le altre sono la punta di un iceberg. Una punta aguzza, violenta, intollerabile. Ma appena sotto, ci sono le vite di noi tutt*. Sacrificabili, intercambiabili, usa e getta.
Tratto da Anarres
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