La piccola esperienza repressiva vissuta a Trieste da cinque compagni del Gruppo Germinal conferma le valutazioni storiche e le intuizioni politiche dell’anarchismo: lo stato è il problema e non la soluzione.
Il fatto è molto semplice. Il Primo Maggio si voleva ricordare con un fiore e un cartello i quattordici lavoratori uccisi in città nel 1902, durante il primo sciopero generale. Lo stato, allora austriaco, aveva risposto col terrore alla lotta di un proletariato multietnico ribelle (vedi nota storica successiva).
Pur rispettando la prudenza sanitaria e non sottovalutando i rischi del virus, i compagni sfidavano il coprifuoco del Primo Maggio imposto alle iniziative pubbliche e il bavaglio alla libertà di comunicazione. A Trieste e dintorni, il Primo Maggio è tuttora molto sentito e coinvolge ogni anno migliaia di lavoratori e cittadini nel grande corteo e negli incontri di socializzazione. La scomparsa del PCI, che un tempo controllava la situazione, ha permesso anche ai libertari di essere presenti in forma evidente e di allacciare proficui contatti con molti potenziali compagni, oltre a diffondere centinaia di copie del giornale Germinal.
Stavolta ci si è misurati con una logica autoritaria inedita nelle sue dimensioni e durezza. La “guerra al virus”, imposta in tutta Italia, ha giustificato l’attacco diretto verso ogni forma di protesta sociale e di affermazione del naturale diritto alla libera espressione. La reclusione nelle abitazioni, imposta con una propaganda inaudita, ha comportato l’esclusione dai contatti con altre persone presentate come pericolosi untori e probabili cause di gravi malattie e di morte.
Il sistema dominante ha dimostrato che la ricerca istituzionale di porre rimedio alle disastrose condizioni sanitarie (come noto vittime di decenni di tagli e di privatizzazioni) cedeva la scena all’ossessivo sforzo di intensificare pratiche e strutture repressive. Lo stato ha mobilitato tutte le forze armate e ha collaudato nuove modalità tecnologiche: dagli elicotteri di ultima generazione ai droni ancora poco noti al grande pubblico. Le immagini dei posti di blocco con i soldati in tuta mimetica dotati di mitra, la stretta collaborazione di polizia, anzi delle polizie, con i militari di ogni arma, l’accanimento nel fermare ogni sospetto disobbediente alle disposizioni draconiane sono riuscite a comunicare alla popolazione un senso di estrema paura e di vera e propria angoscia generalizzata.
In questo contesto, la discrezionalità del singolo agente di polizia che poteva fermare e multare pesantemente o lasciar passare l’individuo che ritenevano sospetto di “furberia” (una categoria quanto mai ipocrita) costituiva un ulteriore elemento di inferiorità. Chi decideva se lasciarti passare o meno esercitava una facoltà evidentemente arbitraria interpretando e applicando una serie di norme il più delle volte confuse e contraddittorie. Insomma, nel microcosmo di una strada, si poteva apprezzare un fenomeno costituzionalmente straordinario: la fusione del potere legislativo, amministrativo e quasi giudiziario.
Sul piano della propaganda, fondamentale supporto della forza bruta, lo stato e i suoi alleati hanno voluto mimare lo stato di guerra vera e propria diffondendo la visione del virus quale “nemico” da distruggere con ogni mezzo per la “salvezza della Patria”. Questa manovra diversiva serviva soprattutto a far dimenticare che le conseguenze disastrose della pandemia derivavano direttamente dall’insufficienza, in vari casi anche inesistenza, di una sanità all’altezza delle evidenti necessità.
Il modello istituzionale dell’emergenza, già varato non tanto tempo fa con il pretesto del terrorismo interno o internazionale, passava attraverso dati statistici sulle vittime offerti come autentici bollettini di guerra. Poiché “il nemico è alle porte” occorreva evitare ogni polemica e collaborare con lo stato militarizzato. Utili tricolori e l’orribile inno nazionale rafforzavano uno spirito da caserma assediata e procuravano conseguenze devastanti della coesione sociale: il bravo cittadino doveva diventare un delatore ossessivo e, purtroppo, vanno registrati non pochi casi di persone frustrate e subordinate che hanno assunto questa veste talvolta con soddisfazione perversa.
In questi frangenti difficili, il principio di riferimento istituzionale, sia teorico sia pratico, è stato quello tipico di ogni esercito: “Gli ordini non si discutono, si eseguono!”. Le sanzioni che naturalmente accompagnavano queste scelte autoritarie erano, soprattutto all’inizio, veramente pesanti: il carcere era previsto, agli inizi, per i soggetti “antisociali”. Paradossalmente lo stato adottava uno slogan tipico dei gruppi armati degli anni Settanta: “Colpirne uno per educarne cento!”.
Solo l’impossibilità pratica per le istituzioni, in particolare quella giudiziaria, di sostenere il carico delle possibili conseguenze di provvedimenti così inflessibili ha consigliato di deviare la repressione verso l’erogazione di sanzioni amministrative. Cosa che ha illuso le istituzioni governative sul piano della riscossione di consistenti entrate finanziarie recuperando i sussidi, spesso incerti e in ritardo, elargiti per evitare l’esplosione di rivolte diffuse di gruppi sociali ridotti alla fame per la perdita del lavoro.
Poiché i cittadini venivano considerati incapaci di comprendere la gravità della condizione sanitaria, la via scelta dal potere era quella di imporre l’obbedienza cieca e la rassegnazione a essere guidati come un gregge. Lasciarsi gestire dai vertici doveva essere il comportamento più “responsabile” per chi sta alla base della piramide sociale e politica. Chi sia riuscito a mantenere una minima capacità di analisi ha potuto constatare come si sia applicato un groviglio di violenza legalizzata e di inganni comunicativi. Così i lavoratori della sanità, lasciati spesso senza la minima protezione in balia del contagio, venivano etichettati come “eroi” per nascondere le inefficienze gravissime delle strutture sanitarie.
In questi ultimi giorni, le promesse di incredibili quantità di miliardi che, a detta del governo, sono pronti per venire donati e investiti dovrebbero dimostrare gli sforzi di chi comanda per risolvere i problemi più urgenti. Resta irrisolto il problema di come lo stato e le regioni riusciranno a recuperare tali enormi quantità di risorse per far quadrare i loro conti. Ci si può logicamente aspettare nuove tassazioni dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, le categorie che hanno sempre, e inevitabilmente, sopportato il prelievo fiscale mentre le classi privilegiate verranno ulteriormente favorite secondo quanto si vede già nelle richieste di padroni e alti burocrati.
Di sicuro non si ridurranno le spese militari, terreno prezioso per la speculazione economica e la militarizzazione. Anche in vista di eventuali proteste di massa di ceti sociali ancora più indeboliti dopo queste settimane di sostanziale passività. Recenti vicende di arresti e incriminazioni, ancora una volta per ”terrorismo”, indicano un metodo rivolto alla prevenzione di insubordinazioni legate ai prossimi conflitti che mettano in forse il controllo istituzionale. Non è un caso che pandemia e polizia siano parole in assonanza.
Claudio Venza