1.
Qualcuno potrebbe credere che la grande fortuna di Indymedia ((i)) sia stata quella di essere nata al posto giusto e nel momento giusto: nel 1999 a Seattle (USA) durante le proteste contro una riunione del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), due giorni di manifestazioni e scontri che portarono il Sindaco della città all’applicazione della legge marziale e che si conclusero con più di 600 arresti.
Ma il termine “fortuna” è sicuramente sbagliato in quanto sia ((i)) sia il cosidetto movimento “no-global” non sono spuntati all’improvviso dal nulla, poiché già da diversi anni piccole e grandi manifestazioni venivano organizzate localmente in occasione di incontri politici internazionali e, fin da prima del 1995, la Rete Internet è stata usata, soprattutto attraverso le BBS, la posta elettronica e le mailing list per discutere, diffondere informazioni, coordinare ed organizzare iniziative. Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso il web era già abbastanza diffuso ed il terreno quindi più che fertile per far nascere il progetto di un mezzo di comunicazione indipendente. Il successo di ((i)) è quindi più che annunciato, anche se i mass media ufficiali ci metteranno qualche anno a rendersene conto.
Subito dopo la “battaglia di Seattle” si poteva leggere su uno dei maggiori quotidiani italiani che i manifestanti “Evidentemente hanno usato Internet per organizzarla, ovvero si sono serviti della globalizzazione che dicono di voler combattere”,[1] senza alcun cenno a ((i)). Significativamente, sempre sullo stesso argomento, un anno dopo, veniva pubblicato un articolo dove sebbene si parli diffusamente di Internet e dei no-global non si cita mai ((i)).[2] Più che frutto di una cosciente volontà censoria questo genere di omissioni sono il risultato di un misto di provincialismo, di un certo modo di (non) fare informazione e di ignoranza dei movimenti e dei loro rapporti con le nuove tecnologie della comunicazione.
2.
Il sito seattle.indymedia.org va on-line il 24 novembre del 1999 e l’idea viene fatta risalire alle discussioni che si erano tenute nel giugno dello stesso anno in occasione del “Carnevale anticapitalista” che vide manifestazioni in decine di città ed in diversi paesi. Ma già nel 1996, in occasione della Convention Democratica a Chicago, un gruppo chiamato “Countermedia” aveva deciso di raccontare le proteste e le dimostrazioni attraverso il Web.[3] Il sito nasce come strumento informativo di un neonato “Independent Media Center” per documentare le proteste contro il “Millennium Round” a Seattle, la sua attività non si esaurisce però alla fine delle due giornate, anzi iniziano a comparire altri siti con lo stesso logo, uno dei primi già nel febbraio del 2000 a Boston. Prima negli USA e poi in diversi paesi ((i)) si trasforma velocemente in una rete che copre buona parte del mondo “occidentale”.
Il software usato per il sito era stato sviluppato in Australia dal collettivo “Catalyst”; viene usato per la prima volta durante il “Global Day of Action” (18/06/1999) e permetteva a chiunque fosse in possesso degli strumenti adatti di pubblicare liberamente testi, immagini, audio e filmati. Una cosa in quegli anni assolutamente rivoluzionaria.[4] Le notizie su quello che stava accadendo a Seattle raggiungono immediatamente tutto il mondo aggirando il filtro delle agenzie ufficiali anche grazie a ((i)) che si propone come un sito di informazione indipendente fatto e gestito direttamente da chi partecipa ai movimenti. Un sito che ha un immediato successo: già durante i giorni di Seattle il sito colleziona più di un milione e di visitatori, un numero impressionante ancora oggi.
Il primo testo pubblicato sul sito chiarisce fin dall’inizio qual’è la posta in gioco: “La resistenza è globale (…). La rete altera drasticamente l’equilibrio tra media multinazionali ed attivisti. Con solo qualche riga di codice ed alcune attrezzature economiche, possiamo creare un sito web automatizzato ed in tempo reale che compete con le aziende. Preparati a essere sommerso dall’ondata di produttori di media attivisti sul campo a Seattle ed in tutto il mondo, che raccontano la vera storia dietro l’accordo commerciale mondiale.”[5]
In realtà ((i)) è molto più che un modo per diffondere informazione indipendente in quanto diventa – fin dall’inizio – anche un prezioso strumento per organizzare le proteste a livello globale. Già alla fine del 2000 i nodi sono 30, nel 2001 se ne contano almeno una settantina, compreso quello italiano, italy.indymedia.org,[6] anche se la diffusione dei siti è prevalentemente statunitense e restano ancora fuori, soprattutto per ragioni legate alla lingua ed alla diffusione degli strumenti informatici tutte le regioni dell’Est europa e buona parte di quelle africane e asiatiche. Negli anni successivi il numero dei nodi continua a salire: sono più di 80 nel 2002 e 122 nel 2003. Tra il 2005 e il 2006, quelli che probabilmente si possono considerare gli anni di picco nella diffusione del network, i nodi locali di ((i)) arrivano a più di 170 e il loro numero segue, anche se in modo meno veloce, a crescere. La distribuzione continua a essere centrata sulle regioni del cosiddetto “primo mondo” ma fanno la loro comparsa anche nuovi siti in Asia e Africa.
3.
La struttura portante delle pagine web di ((i)), differenze grafiche a parte, è quasi sempre la stessa: una Home divisa in tre colonne con al centro quella delle “feature”, vale a dire i testi preparati dal gruppo che gestisce il sito, e sulla destra il “newswire”, cioé l’elenco, aggiornato in tempo reale di tutti i contributi pubblicati dagli utenti, nella colonna di sinistra c’è la lunga lista che elenca gli altri nodi della rete.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, le redazioni messe in piedi fin dai primi anni di funzionamento sono tutto meno che il trionfo dello spontaneismo: le procedure per aprire un nodo di ((i)), chiamate “process”, sono alquanto dettagliate e stringenti ma tutte le discussioni vengono fatte su liste quasi sempre pubbliche anche se spesso risulta difficile, per chi è esterno a determinate dinamiche e non conosce bene l’inglese, riuscire a seguire quello che sta succedendo. Sono due le caratteristiche che contraddistinguono il funzionamento di ((i)), quelli che si potrebbero definire i suoi principi fondanti: la libertà di comunicazione e l’auto-organizzazione: nel 2001 in una riunione tenuta a San Francisco discutendo del futuro del progetto vennero messi nero su bianco i “principi di unità”[7] che avrebbero dovuto essere alla base della creazione e del funzionamento dei nodi futuri.
Anche se oggi può sembrare strano, agli inizi di questo secolo praticamente non esistevano su Internet piattaforme attraverso le quali era possibile pubblicare automaticamente testi e immagini, quindi la “pubblicazione aperta”, vale a dire libera da censura e senza moderazione preventiva è stata davvero una rivoluzione epocale nel campo della comunicazione.[8] Per gestire il network veniva usato il “metodo del consenso”,[9] un sistema di discussione e decisione che non prevede votazioni finali e quindi la creazione di maggioranze e minoranze. Un sistema che resterà a lungo nella storia dei movimenti, non solo negli USA, e che sarà (in parte) ripreso alcuni anni dopo da “Occupy Wall Street”. Anche a livello tecnico ((i)) è stata però un esperienza importante, dando un impulso al movimento a favore del software libero contro i colossi del copyright e promuovendo l’uso di strumenti, come per esempio il “Wiki”, che poi si sono diffusi a macchia d’olio in molti altri contesti.
La composizione dei gruppi di gestione dei diversi nodi cambiava da situazione a situazione: alcuni di essi erano formati da un pugno di persone, altri da collettivi molto numerosi, qualcuno aveva dietro associazioni o cooperative; in alcuni la composizione politica dei partecipanti era omogenea, in altri un po’ meno o quasi per nulla. I siti a volte restavano on-line solo per qualche mese, oppure si scindevano in versioni locali, a volte chiudevano e riaprivano gestiti da altre persone. Diversissima anche la qualità di quanto veniva pubblicato. Le poche cose che sempre li accomunavano, oltre al logo, erano i “principi fondanti” ricordati sopra.
4.
Naturalmente, dopo un primo momento di disattenzione, le strutture dei governi hanno iniziato a interessarsi maggiormente di questa “strana cosa”, difficilmente definibile ed inquadrabile secondo gli schemi delle teorie della comunicazione di massa ai tempi di Internet. Impossibile conoscere o elencare tutti i casi ma ricordiamo che la repressione ha colpito ((i)) sia a livello di strutture tecniche sia più concretamente con azioni dirette contro chi faceva informazione indipendente.
Agosto 2000, il Dipartimento di Polizia di Los Angeles interrompe la connessione di ((i)) che stava coprendo la Convenzione Democratica a causa di una sospetta auto-bomba.
Aprile 2001, il FBI chiede al nodo di Seattle il log con gli IP degli accessi al sito.
Luglio 2001, durante le giornate contro il G8, a Genova la polizia assalta il “mediacenter” dove erano collocate le strumentazioni di ((i)), distruggendo materiali, picchiando e arrestando persone. Successivamente verranno perquisite alcune “sedi” (sic!) di italy.indymedia.org.
Ottobre 2004, il FBI sequestra alcuni hard-disk, collocati in Gran Bretagna, che ospitano i siti di una ventina di nodi europei di ((i)), compreso quello italiano.
Giugno 2005, viene sequestrato il server di Bristol (UK) ed arrestato uno dei gestori.
Ottobre 2006, Brad Will, giornalista e volontario di ((i)) viene ucciso in Messico, probabilmente da un paramilitare, mentre stava documentando le proteste in corso a Oaxaca.
Gennaio 2009, uno degli amministratori dei server di indymedia.us riceve una ingiunzione dalla Corte Federale dello Stato dell’Indiana (USA) con la richiesta di fornire informazioni. Viene sequestrato un server di indymedia a Manchester (UK).
Aprile 2013, il Governo greco blocca l’accesso al sito athens.indymedia.org.
Agosto 2014, viene nuovamente sequestrato il server di Bristol (UK).
Giugno 2017, il Ministero degli Interni tedesco vieta il nodo linksunten.indymedia.org e la polizia opera perquisizioni nelle case di alcuni dei gestori del sito.
5.
Dopo venti anni molti sono convinti che ((i)) sia finita anche perché sono altre le piattaforme che nel frattempo hanno assunto maggiore importanza nella comunicazione elettronica, anche di quella usata dagli attivisti politici. Ad una veloce ricerca senza alcuna pretesa di completezza, oggi ci sono ancora siti[10] che riportano il logo di ((i)), che hanno più o meno lo stesso aspetto grafico e che sembra continuino a funzionare nello stesso modo di sempre. Quella che invece è probabilmente sparita è la rete di collegamento che stava dietro a questo progetto ed i siti sopravvissuti sono solo una pallida ombra di quello che è stato il network.
Alcuni sono convinti che la fine di ((i)) sia stata causata dall’avvento del cosiddetto “web 2.0”, altri che sia un effetto della sparizione del movimento che nel 1999 aveva fornito le energie vitali per farlo decollare. Probabilmente la risposta non è univoca e forse non ha nemmeno molto senso affannarsi a cercarla. Resta, incontrovertibile, il fatto che il progetto è stato sicuramente il più importante tra quelli portati avanti dai movimenti per dotarsi di propri strumenti di comunicazione di massa e contrastare a livello globale l’egemonia del sistema mediatico del Potere.
Per raccontare davvero cosa è stata ((i)) ci vorrebbe molto più che uno scritto occasionale e quindi questo è un semplice pretesto per rendere omaggio ad un progetto, frutto di una intelligenza collettiva, che ha sperimentato un tipo di comunicazione autogestita e orizzontale, che ha provato a ribaltare – riuscendoci – il paradigma dell’informazione ufficiale, che ha dato voce a chi non l’aveva mai avuta in precedenza, che continua a r-esistere, anche se in altre forme, all’interno di un panorama mediatico diverso da quello del 1999 ma sempre dominato della comunicazione ufficiale.[11]
Inutile nascondere che questo progetto ha avuto le sue contraddizioni, i suoi problemi, i suoi brutti momenti e le sue mancanze ma crediamo che, anche mettendoli tutti insieme, gli aspetti negativi non riusciranno mai a bilanciare quanto di importante e positivo è stato fatto in quegli anni. Il ventennale dovrebbe essere non tanto una occasione per ricordare nostalgicamente i bei tempi andati ma una buona occasione per rilanciare e continuare la lotta per costruirci i nostri mezzi di comunicazione autogestiti e indipendenti.
Pepsy
RIFERIMENTI
[1] “Il progresso non si ferma ma dobbiamo governarlo”, in la Repubblica, 3/12/1999.
[2] “Seattle, la protesta globale”, in la Repubblica, 3/12/1999.
[3] Le pagine sono ancora presenti sul web, come memoria storica, qui http://www.cpsr.cs.uchicago.edu/countermedia/
[4] I CMS più famosi non esistevano ancora: Drupal (2000), WordPress (2003), Joomla (2005).
[5] Era firmato “Maffew & Manse” ed era qui http://seattle.indymedia.org/en/1999/11/2.shtml
[6] Il quale magari si potrebbe celebrare l’anno prossimo, quando saranno passati 20 anni.
[7] Di seguito i “principi di unità” che, comunque, sollevarono anche infinite discussioni: 1. L’Independent Media Center Network (IMCN) è basato su principi di eguaglianza, decentralizzazione e autonomie locali. L’IMCN non deriva da un processo di centralizzazione burocratica, ma dall’auto organizzazione di collettivi autonomi che riconoscono l’importanza dello sviluppo dell’unione del network. 2. Tutti gli IMC considerano il libero scambio e il libero accesso all’informazione un requisito essenziale per costruire una società più libera e più giusta. 3. Tutti gli IMC rispettano il diritto di tutti quegli attivisti che decidono di non essere né fotografati né filmati. 4. Tutti gli IMC basati sulla credibilità dei propri contribuenti e lettori, dovranno utilizzare il modello di pubblicazione web aperta, dando la possibilità a singoli individui, gruppi e organizzazioni di esprimere le loro opinioni, con l’anonimato se desiderato dagli/lle stessi/e. 5. L’IMC Network e tutti i collettivi degli IMC locali dovranno essere no-profit. 6. Tutti gli IMC riconoscono l’importanza del processo di cambiamento sociale e sono impegnati nello sviluppo di relazioni non gerarchiche e non autoritarie. A questo proposito si organizzino collettivamente e si impegnino a utilizzare il metodo decisionale del consenso, attraverso la partecipazione democratica e trasparente di tutti i suoi membri. 7. Tutti gli IMC riconoscono che un requisito essenziale per la partecipazione al processo decisionale di ogni gruppo locale è il contributo dell’individuo al lavoro del gruppo stesso. 8. Tutti gli IMC sono impegnati ad assistersi l’un l’altro e le rispettive comunità dovranno cercare di mettere in comune le proprie risorse, inclusi la conoscenza, le capacità e gli equipaggiamenti. 9. Tutti gli IMC devono impegnarsi ad usare sorgenti di codici accessibili a tutti, quanto più possibile, per lo sviluppo delle infrastrutture digitali, e per incrementare l’indipendenza del network da software privati. 10. Tutti gli IMC devono sottostare al principio dell’uguaglianza fra gli uomini, e non dovranno perpetrare discriminazioni di alcun genere, includendo le discriminazioni basate su differenze di razza, sesso, età, classe di appartenenza o orientamenti sessuali. Riconoscendo la vastità di tradizioni culturali all’interno del network, gli IMC si impegnano a convivere con la diversità.
[8] Si tenga presente che nel 2000 non esisteva ancora Google, YouTube e tutto il resto della compagnia.
[9] Non è questa la sede per illustrare il metodo del consenso e le critiche che, spesso giustamente, ha sollevato. Chi volesse approfondire l’argomento può partire dalla consultazione delle voci in inglese e italiano della Wikipedia.
[10] Abbiamo fatto questa veloce ricerca alla fine di ottobre del 2019 ed i siti ancora attivi sono: USA (11), Sud America (5) ed Europa (10).
[11] Basta dare uno sguardo allo stato della comunicazione nell’era dei “telefonini intelligenti” e dei “social” per rendersi conto che il potere dei mass media commerciali oggi è predominante più di quanto già lo fosse nel 1999 ai tempi del predominio di giornali e televisioni.