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Percorsi di incompatibilità

Percorsi di incompatibilità

1.0 La Fase

L’analisi negli ultimi anni, a partire, almeno, dall’inizio del ciclo di crisi nel 2008, si è concentrata molto sulle contingenze e le congiunture, sul qui ed ora, più che sulle dinamiche strutturali che hanno determinato l’attuale assetto storico. Uno sguardo ampio sui meccanismi profondi che regolano la società ed il peso che la politica rappresentativa e l’economia esercitano su concetti come reddito, lavoro e coesione, tarda a farsi strada.

Per correttezza e coerenza va fatto presente che in molti casi si sono tentati dei timidi passi a lato, in modo da poter sfruttare la prospettiva per una foto a grande angolo della realtà, ma insufficiente è stata la distanza presa per apprezzare l’interezza delle problematiche in atto. Procederemo quindi tentando di analizzare la fase con un minimo di ordine, partendo da cosa non è stato fatto e di cosa non si è tenuto conto, dei passaggi non fatti e delle sintesi mai abbozzate (seppur a portata di mano).

1.1 La Narrazione Nella Post Modernità

A livello storico e sociale dal ’78 all’89 è avvenuto un collasso delle istanze movimentiste, protrattosi poi per tutti gli anni ’90 per una serie di relazioni complesse innescatesi nella società europea in generale ed italiana in particolare, il benessere ha senza dubbio contribuito a far abbassare la guardia, le conquiste dei lavoratori hanno fatto ben sperare di aver superato un punto di non ritorno, ritenendo indiscutibili queste ultime e proiettando l’immaginario in un futuro che poteva solo evolvere in meglio.

Sul piano socio-politico si chiudevano le esperienze della lotta armata e delle organizzazioni extraparlamentari, si compiva uno strappo sociale, tutt’ora non sanato, nelle rappresentanze parlamentari, cominciava a farsi strada il concetto di irrappresentabilità, non a livello categoriale ma a livello di tessuto sociale, si andava quindi aprendo un baratro fra le istanze dei rappresentanti e le esigenze dei rappresentati. Il meccanismo della delega in bianco ha sbilanciato un sistema che, tra mille contraddizioni, aveva retto per le prime quattro decadi della Repubblica. Con scarsi risultati si è cercato di incardinare le istanze di rappresentatività con una lettura di classe, lettura che appariva e che purtroppo tutt’ora appare orfana del significato stesso di classe. Gli anni ’80 hanno spazzato via il senso stesso dell’essere classe, il benessere e il nascente mercato completamente globalizzato hanno drogato le analisi sociali e politiche fino a far coincidere le istanze borghesi con quelle dell’autentico progresso, facendo dimenticare a molti che chi vive del proprio lavoro è e rimane nell’ambito del proletariato pur se libero e, talvolta, affermato professionista.

Mancando un ragionamento organico i tentativi sono spesso stati parziali, vuoi per la sfiducia che certi concetti avevano oramai causato vuoi per il fatto che lo scenario non appariva più drammatico, con la disoccupazione in calo, il PIL in crescita e la stagione delle bombe sui treni e nelle piazze oramai alle spalle. Un senso di speranza ha inebetito la società in maniera direttamente proporzionale all’aumento del salario. Un altro aspetto, spesso non considerato nella giusta prospettiva, è stata la progressiva sparizione di partiti cosiddetti di sinistra, che rappresentando un contro altare creavano quel distinguo negativo nel quale il movimento, pur nella sua variopinta e caleidoscopica natura, ha perpetuato spesso la sua ragion d’essere. Sparendo il PCI è mancato l’antagonista istituzionale per eccellenza, quindi le costruzioni teoriche che agivano in funzione dell’essere in un rapporto dialetticamente conflittuale con “il Partito” hanno mostrato il loro limite e sono sparite quasi contemporaneamente al partito stesso. Si è passati dalla militanza alla spontanea aggregazione di individui fino alla creazione delle “zone franche” dei centri sociali che, con alterne fortune, hanno comunque costituito un passaggio storico di arretramento e chiusura a riccio, nella strenua resistenza contro un nemico che si faceva di giorno in giorno sempre più difficilmente riconoscibile. Il fatto può spiegarsi sia nelle mutate condizioni sociali, sia nella profonda crisi di alcune teorie politiche che, negli anni ’90 sono state ridimensionate, demolite, ricusate e infine quasi abbandonate.

Se da un lato si proponeva il superamento delle utopie con una profonda critica ai grandi pensieri (e pensatori) dell’800, talmente profonda da rasentare il revisionismo in taluni casi, dall’altro il mantra Thatcheriano dell’inconsistenza del concetto di società, sostituito dai singoli individui e dalle famiglie come unità base di riferimento per i consumi, cominciava a demolire alla radice l’essenza stessa della coesione sociale. Altro tassello non meno importante è stato il cambiamento del valore sociale della figura dell’operaio, visto fino a quel momento come unità di misura: sul salario dell’operaio si misurava il livello di benessere di una intera nazione, in quanto rappresentava il primo livello di reddito, l’unità base, il livello minimo.

La stagione delle lotte aveva quantomeno creato dei livelli di riferimento chiari e comprensibili, di ascesa e discesa sociale. Tutto ciò ha cominciato a deteriorarsi in quanto la tenuta dell’unità di misura è legata non solo al fatto che la parte di società di cui questa è espressione continui a rivendicarla come propria, ma è conditio sine qua non che si continui a costruirci sopra delle aspettative. La risposta è stata un gioco al recupero della capacità di spesa e non dei principi che sottendevano le conquiste storiche. Questo va tenuto a mente per capire l’attuale confusione delle rivendicazioni.

Se da un lato c’è stato un arretramento analitico, una progressiva incapacità di mettere in luce le contraddizioni per concentrarsi sul mero piano delle rivendicazioni, dall’altro si è via via spostata l’attenzione da un piano utopico ad un piano di successive visioni miglioristiche dello status quo, un progressivo “disincanto” ed una ricerca pragmatica di rintracciare, all’interno dello stesso sistema, le vie d’uscita dalle problematiche che venivano create dai processi di riproduzione del capitale. Al mantra della fine delle ideologie ha quindi fatto eco l’abbandono di “prassi analitiche” e la dialettizzazione dei problemi è stata sostituita dalla problematizzazione della dialettica, spalancando le porte al pensiero postmoderno che ha inoculato il virus della visione a senso unico per eccellenza: il neoliberismo.

Uno sconvolgimento radicale e profondo ha rovesciato i paradigmi storici di declinazione della realtà come narrazione del conflitto tra capitale e lavoro, sostituendovi la narrazione dell’indefinita possibilità tecnologica, delle successive approssimazioni e dell’inutilità di narrazioni totalizzanti. L’esito è che stiamo dentro ad una narrazione che ha già totalizzato il reale autodefinendosi come unico orizzonte possibile, eliminando il concetto stesso di altro da sé; anche le esperienze e le sperimentazioni che pretendono di porsi fuori da questa non fanno altro che assumere gradi di compatibilità differenti dalla norma, ma senza mai uscirne o porsi in una reale controfase o genuina ed originale incompatibilità.

1.2 Cosa C’è Da Perdere Che Non Abbiamo Già Perso

I tentativi che si sono succeduti, simili nelle prassi e diversi solo nelle parole d’ordine, sempre orientati alla creazione di un consenso o all’addomesticazione di un’opinione, da opporre alla narrazione totalizzante neoliberista, si sono dimostrati fallimentari, in quanto partivano sempre dalla volontà di decostruire le sovrastrutture, lasciando intonsa la struttura profonda del problema. Le stesse lotte studentesche dalla Pantera all’Onda, pur con analisi differenti, hanno fatto emergere la contraddizione senza scalfirla, anzi costruendo su di essa un immaginario di possibilità, assolutamente compatibili con il sistema.

Il punto di rottura non si è mai raggiunto, ossia non si è mai sperimentato un reale processo di successivi livelli di incompatibilità ed emancipazione con la narrazione neoliberista. La stessa ricerca di creare network di controinformazione ha fallito in quanto agente ed operante nell’assurda convinzione che l’accesso alla rete equivaleva ad avere accesso allo strumento informativo per eccellenza: da qui il tentativo di rivaleggiare con il mainstream, senza averne la stessa capacità organizzativa, su base spontanea e colloquiale, senza una strategia chiara.

L’esito è stato l’allontanamento dalle istanze di movimento di soggetti molto capaci che hanno ripiegato sulla creazione di blog personali rinchiudendosi dentro analisi specifiche di singole tematiche, contribuendo ad aumentare l’entropia informativa, fino all’attuale rumore. I tentativi, per giunta sempre più inefficaci, di aggregare in nome di una non meglio definita moltitudine che dovrebbe spontaneamente creare una massa critica d’impatto stanno mostrano la loro inconsistenza di fondo, riducendosi ad eventi stagionali, assembramenti che assumono sempre più la connotazione di fine ultimo o di misura del livello di egemonia di un’area sulla capacità di mobilitazione del movimento.

L’esito è che di anno in anno, di stagione in stagione, si devono mostrare i muscoli per dimostrare a sé stessi di esistere e si investono energie sempre più scarse in manifestazioni nazionali sempre meno convinte, con piattaforme sempre più dilatate per tenere dentro tutto e il contrario di tutto, per fare numero, addizione di realtà e singoli individui, che il più delle volte non reggono oltre l’evento.

Una deflagrante spontaneità ed una ricerca di informalità dettate dal rifiuto di qualsivoglia istanza organizzativa ha contribuito a erodere ulteriormente le già fragili basi politiche su cui poggiava lo zoccolo duro del movimento. La spasmodica ricerca dell’agire pur di non rimanere fermi o di perdere il passo con altre parti del movimento ha innescato processi nei quali le analisi dei perché lasciavano spesso spazio alla tattica del come fare.

Istanze aggregative, oramai orfane di un ragionamento atto a delineare il perché dell’aggregare, giocano al rilancio senza preoccuparsi troppo di chi si aggrega e dietro quali motivazioni; si cercano parole d’ordine che catturino per un istante l’immaginario, sperando nella creazione di punti di accumulazione che di stagione in stagione cambiano. Il processo di preparazione stagionale si riduce spesso all’elaborazione di nuove proposte e nuove parole, analisi usa e getta e pratiche riciclate da successi oltre mare o oltreoceano.

La duplicazione delle ricette movimentiste o rivoluzionarie, l’esser stato protagonista, l’ospite d’eccezione da sbattere su un manifesto o da contendere per le varie iniziative, il tutto sempre più velocemente, senza tempo per riflettere e capire il contesto in cui siamo inciampati. Una becera mimesi della velocità di consunzione del capitale, veloci sempre più veloci ad inseguire date e scadenze regionali, nazionali e internazionali.

Quel che esce fuori dai ranghi del movimento non si annichilisce, non diventa silente, ma cerca altre strade o si istituzionalizza: una responsabilità storica e politica che va riconosciuta e assunta, al di là di liberatori “mea culpa”. Il sopravanzare delle nuove destre è si acuito dalla crisi, dalla straordinaria stagione migratoria e dall’esodo di profughi da svariate parti di Asia e Africa, ma lo spazio di manovra lo hanno rosicchiato da quello lasciato dall’assenza di progettualità territorializzata.

I cinque stelle hanno raschiato, rastrellato e raggranellato tutto quel che restava fuori dai processi ciclici di flusso e riflusso del movimento, pescando qui e lì anche tra i fuoriusciti di partiti, piccoli e grandi, in cerca di un’ora di gloria in un organismo nascente. Quel che si perde non è mai perduto, rifluisce sempre altrove, ma quasi mai torna indietro. Dopo aver perso identità di classe e capacità di analisi, dopo aver perso credibilità in nome di un non meglio identificato bisogno di unire gli opposti, dopo aver perso progressivamente contatto con il territorio e forse anche il contatto con la realtà cos’altro resta da perdere?

1.3 Le Sperimentazioni Orfane

Negli anni recenti si è spesso dibattuto su varie tematiche legate ai diritti ed alle relative riappropriazioni. Dal diritto alla casa, all’insegnamento, alla sanità finendo, con un processo quasi filologico, all’enucleazione del diritto al reddito, il che ha potenziato i ranghi di coloro i quali valutavano positivamente il reddito di cittadinanza o reddito universale o reddito sociale. Al di là del reale significato e delle confusioni con altri strumenti economici o di welfare (vedi il basic income) quel che è interessante notare è come si sia progressivamente prodotta una mutazione nelle rivendicazioni sociali.

Il rivendicare una redditualità diretta (monetaria) ha aperto nuove visioni nell’immaginario collettivo rendendo compatibili, con l’esistenza nell’era dei consumi, meccanismi quali il precariato: se si immagina di poter rimpinguare il gap salariale con un minimo garantito, allora si è ben disposti a percepire paghe ridotte o pagare un canone locativo lievemente più alto o subire in maniera passiva la privatizzazione e l’aziendalizzazione dei pubblici servizi. Si rende socialmente accettabile un passaggio epocale, ossia il sostegno indiretto alla produzione dei servizi con un trasferimento di risorse dalle casse statali alle casse delle aziende, passando dalle tasche del cittadino medio.

Questa però non è che la parte emersa del problema: il cambio di prospettiva del reddito diretto come diritto ha di fatto distorto le prospettive di un immaginario collettivo che ora rivendica denaro e non si muove, invece, nell’ottica dell’autonoma conquista di un miglioramento delle condizioni di vita; o, peggio, rivendica il denaro come strumento di acquisizione di diritti. Il reddito è oggetto di dibattiti complessi, ma la sua centralità è sempre stata vista come positiva, mai come problematica da decostruire.

L’esigenza del reddito è centrale ma, come molte esperienze e discussioni che non hanno mai creato le doverose istanze di incompatibilità con il sistema (in questo caso la declinazione utile è quella del sistema mercato) ci si ritrova a dibattere su come riappropriarsi di reddito o di liberare spazi per un libero ottenimento dello stesso, svincolato da leggi e regole, nella speranza che questo basti ad avviare un processo di reale emancipazione dai dettami del sistema mercatale di riproduzione del reddito.

In realtà si liberano risorse e si creano dei micro ammortizzatori sociali attraverso l’economia informale, che nel complesso sgrava lo Stato ed il sistema in generale da alcuni obblighi e oneri. In questo complesso flusso di dibattiti e analisi è spesso sfuggito il concetto stesso di reddito e cosa invece potrebbe configurarsi come suo sostituto, nell’ottica di ricostruire una ricomposizione sociale, ossia il riappropriarsi dei mezzi per la produzione di reddito indiretto, cioè beni e servizi non mediati dalla quantità di moneta, in breve recuperare il valore d’uso nell’ottica di dissacrare il valore di scambio.

Quello che colpisce è che nella rincorsa del reddito spesso si sottovaluta la direzione verso la quale si avvia la rivendicazione, si perde di vista il fatto che ciò che si chiede è la crescita economica nella sua più genuina formula economica neo-classica, ossia la generalizzata crescita del reddito pro capite. Che a chiedere ciò sia la classe media, in un tentativo di recupero del suo potere di spesa, quindi dei suoi storici privilegi, non sorprende; il problema e la contraddizione esplodono quando queste istanze divengono le parole d’ordine di un intero movimento e di una intera generazione che chiede semplicemente accesso al reddito, cioè potere d’acquisto.

Si ammantano quindi di connotati rivoluzionari alcune pratiche tendenti a scavare nicchie nel mercato globale, che non emancipano dalla necessità del reddito diretto ma ne fanno anzi il fine ultimo, costruendovi attorno una serie di rapporti che su scala ridotta mima la complessità della produzione di massa. Orfane di un preciso percorso politico di reale incompatibilità, molte sperimentazioni concedono molto di più di quel che ottengono e lo sforzo di realizzare un profitto depotenzia e dirotta le energie dal movimento alla produzione. Va anche ricordato che tale produzione trova una domanda in quegli strati sociali che hanno una discreta capacità di spesa, in un paradosso tipico del nostro tempo: si tenta di combattere il soggetto sociale che sostiene lo sforzo, ci si trova quindi ad essere mantenuti esattamente da quel soggetto contro il quale si è convinti di lottare. (segue)

J.R. e Lorcon

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