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2 giugno. Disertori di tutte le guerre.

2 giugno. Disertori di tutte le guerre.

Ogni 2 giugno la Repubblica celebra se stessa con esibizioni militari, parate e commemorazioni.
Una “festa” nazionalista e militarista.
Il governo di estrema destra alimenta la retorica identitaria, i “sacri” confini, l’esaltazione della guerra.
Come ogni anno le cerimonie militari del due giugno servono a giustificare enormi spese militari, l’invio delle armi e l’impegno diretto dell’Italia nelle missioni militari all’estero dall’Ucraina all’Africa. Guerre, stupri, occupazioni di terre, bombardamenti, torture, l’intero campionario degli orrori umani, se compiuto da uomini e donne inquadrati in un esercito, diventa legittimo, necessario, opportuno, eroico.
Le divise da parata, le bandiere, le medaglie, la triade “dio, patria, famiglia” non sono il mero retaggio di un passato più retorico e magniloquente del nostro presente, ma la rappresentazione sempre attuale dell’attitudine imperialista e neocoloniale dello stato italiano.

Guerre di portata planetaria ci stanno portando sull’orlo della terza guerra mondiale. La spirale pare inarrestabile: il conflitto Russia Ucraina rischia di deflagrare in tutta Europa.
L’Italia è direttamente coinvolta con le proprie truppe e con il proprio apparato militare industriale. È in prima fila in conflitti in cui gioca in proprio e in varie alleanze a geografia variabile.
La crisi mondiale, le pericolose convulsioni dell’impero statunitense e della Russia in un pianeta multipolare, le aspirazioni imperialiste concorrenti di potenze regionali come la Turchia, il grande saccheggio dell’Africa, l’imporsi inarrestabile della Cina rendono la china verso il peggio sempre più scivolosa.
L’intersecarsi di pulsioni nazionaliste, guerre di religione e di interesse mira a rendere complici dei massacri anche le popolazioni direttamente colpite dai conflitti.
Nel nostro paese il governo sta facendo una campagna di arruolamento permanente. Di fronte all’escalation bellica vogliono gente assuefatta e disponibile alla concreta possibilità di un coinvolgimento diretto sempre maggiore.
La proposta leghista di reintrodurre la naja obbligatoria di sei mesi per ragazzi e ragazze non serve alle esigenze della macchina da guerra tricolore.
Il ministro della Difesa Crosetto si è detto nettamente contrario. Crosetto sostiene che una simile ipotesi mai comunque potrebbe riguardare le forze armate, “che non possono essere pensate come un luogo per educare i giovani, cosa che deve essere fatta dalla famiglia e dalla scuola”.
Le forze armate sono oggi costituite da professionisti altamente specializzati, necessari per le guerre ultratecnologiche che si combattono in ogni dove. La carne da cannone, quando servisse, la si addestrerebbe in fretta, reintroducendo la chiamata obbligatoria, sospesa e non abolita nel 2005.
In realtà, al di là della propaganda elettorale che contrappone i due alleati in competizione, il compromesso tra le due posizioni è già contenuto nella proposta di Salvini, una proposta che mette a disposizione manodopera gratuita e, insieme, inserisce un nuovo modulo educativo improntato sulla disciplina militare. Facile immaginare uno spazio intermedio tra scuola/lavoro e naja. Un altro orizzonte di militarizzazione dei corpi e delle coscienze.

Un processo di militarizzazione investe le nostre città, le nostre scuole, i principali mezzi di comunicazione e le istituzioni culturali.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce della stessa medaglia, quella della guerra ai poveri per il controllo delle risorse, delle coscienze, delle vie di approvvigionamento e dei flussi informativi.
Da gennaio di quest’anno i militari dell’operazione “Strade sicure”, partita nel 2009 e costantemente rifinanziata dai governi di turno, sono stati destinati, oltre alla sorveglianza di CPR, siti istituzionali e cantieri militarizzati, anche nelle stazioni e nelle periferie delle grandi città.
Intere aree dei quartieri poveri vengono messe sotto assedio, con continue retate di persone senza documenti o che vivono grazie ad un’economia informale.
Il governo a tutti i livelli punta il dito sulle persone più povere, razzializzate, con il continuo ricatto dei documenti, per nascondere la guerra sociale che ha scatenato contro tutti i poveri, italiani e nati altrove, schierandosi a fianco dei padroni grandi e piccoli.
Il controllo etnicamente mirato del territorio mira a reprimere sul nascere ogni possibile insorgenza sociale. I CPR, le galere amministrative per senza carte europee, sono discariche sociali, simili alle carceri.
Il governo sperimenta tecniche di controllo sociale prima impensabili, pur di non mettere un soldo per la casa, la sanità, i trasporti, le scuole.
La spesa militare è in costante aumento, le missioni all’estero delle forze armate italiane si sono moltiplicate.
I militari fanno sei mesi in missioni militari all’estero, sei mesi per le strade delle nostre città.
Tante missioni sono in Africa, dove le bandiere tricolori sventolano accanto a quelle gialle con il cane a sei zampe dell’ENI, la punta di diamante del colonialismo italiano.
La guerra per il controllo delle risorse energetiche va di pari passo con l’offensiva contro le persone in viaggio, per ricacciarle nelle galere libiche, dove torture, stupri e omicidi sono fatti normali.

I movimenti che si sono sviluppati negli ultimi mesi soprattutto nelle università hanno il merito di aver colto il nesso fondamentale tra ricerca accademica ed industria bellica, in un intrecciarsi di interessi che pongono al centro la logica del dominio e quella del profitto, fuori e contro ogni supposta neutralità di un’indagine scientifica che si muove seguendo gli indirizzi dei committenti di turno. Hanno tuttavia un forte limite sia nella definizione degli obiettivi che nelle modalità nel perseguirli.
L’enorme emozione che accompagna l’immane massacro con finalità genocide della popolazione gazawi, finisce con il porre in primo piano solo la critica e il boicottaggio verso lo Stato di Israele, dimenticando che il nostro paese (e le sue università) sono in prima fila in numerosi teatri di guerra, che restano sullo sfondo, avvolti in un oblio pericoloso, che rischia di renderci complici di infiniti orrori. Basti pensare all’Artsakh e al Sudan, due tra le tante guerre cui l’Italia ha contribuito direttamente, fornendo armi e addestratori nel silenzio dei più.
I 120.000 armeni dell’Artsakh, che le truppe azere avevano dichiarato di voler passare per le armi, sono fuggiti dopo l’assedio di un anno e un attacco finale sferrato da truppe rifornite di armi da Leonardo ed addestrate in Italia.
Nei due anni precedenti lo scoppio della guerra civile che ha ridotto in macerie il Sudan, ucciso o obbligato a lasciare le proprie case centinaia di migliaia di persone, l’Italia ha fornito armi alle RSF, le Rapid Support Force di Dagalo, ex comandante dei Janjaweed. In questa guerra Dagalo e i suoi sono tornati al loro sport preferito, quello per cui erano noti da decenni, ossia bruciare i villaggi, stuprare le donne, uccidere gli uomini e arruolare i bambini.
L’Italia contava su Dagalo per bloccare le partenze di migranti da quell’area. Dagalo ricambia il sostegno da par suo, nel silenzio dei media e, purtroppo, di tanta parte dei movimenti.
Un passo in avanti sarebbe unire chi si oppone a CPR e frontiere, a chi lotta contro la militarizzazione della società, a chi si batte contro l’industria bellica.

Una critica reale delle collusioni tra Università e ricerca bellica dovrebbe avere l’obiettivo minimo della cancellazione di accordi di cooperazione con tutte le industrie belliche e tutti gli Stati in guerra. Una critica radicale si dovrebbe interrogare sul ruolo delle Università e sulla necessità di espropriazione permanente di ambiti di studio e ricerca al servizio dell’imperialismo della logica capitalista.

Le guerre moderne, non ultima quella cominciata il 7 ottobre tra Israele e Gaza, hanno come principali vittime le popolazioni civili, massacrate per fiaccare il nemico, per indurlo alla resa o alla fuga.
Opporsi alla guerra senza opporsi al militarismo è una prospettiva miope, perché alimenta l’opinione che vi siano eserciti buoni. E non basta mettere la parola “resistenza” al posto di “esercito” per modificare il senso di guerre combattute per assicurarsi il controllo esclusivo di questa o quell’area geografica. Solo l’alleanza transnazionale degli oppressi e degli sfruttati spezza le frontiere, frantuma la logica statalista e patriottica, fa saltare il tappo identitario legato al luogo, alla religione, alla tradizione per aprire uno spazio simbolico e reale al non luogo, all’utopia, che non è l’irrealizzabile ma solo l’irrealizzato.

Occorre opporsi con forza a chi, dall’Ucraina al Mediterraneo Orientale coltiva la pericolosa illusione che si possano fermare le guerre schierandosi con questa o quella parte in gioco, che si possano disinnescare le spirali di odio e violenza che infiammano tanti conflitti, sostenendo logiche nazionaliste e guerre di religione.
È invece cruciale comprendere le dinamiche della guerra globale, cogliere gli elementi di resistenza, disfattismo, diserzione per rinforzare le reti antimilitariste ed internazionaliste di opposizione alla guerra.
In ogni paese, a cominciare da quello in cui viviamo, è possibile fermare la guerra.
Ovunque ci sono fabbriche d’armi, caserme, porti ed aeroporti militari, poligoni di tiro, pattuglie per le strade. Le basi delle guerra sono a due passi dalle nostre case.
Gettare sabbia nel motore del militarismo, incepparne i meccanismi dipende da ciascuno di noi.
Per un due giugno dei SenzaPatria.

Maria Matteo

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