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No alla scuola dei padroni

No alla scuola dei padroni

La riforma degli istituti tecnici e professionali

Lo scorso 18 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di disegno di legge che istituisce la filiera formativa tecnologica professionale. La denominazione non certo casuale, quella appunto di “filiera”, sottolinea in modo inequivocabile la caratteristica tipicamente produttivistica di questa riforma, che colloca i tecnici e i professionali in un ambito dichiaratamente altro rispetto all’asse formativo culturale proprio dei percorsi liceali. La riforma si configura come una sperimentazione che andrebbe a modificare radicalmente l’assetto di questo segmento importante della scuola secondaria superiore. Vediamo che cosa cambia. Innanzitutto i percorsi scolastici si accorciano di un anno e diventano quadriennali rispetto all’attuale quinquennio. Questa riduzione di un anno per gli studenti significa la perdita di un anno di scuola e di studio, per i docenti (ma anche per i lavoratori della scuola in genere) significa una perdita secca di posti di lavoro. Se consideriamo che, oltre all’abbattimento di un anno di scuola, le ore di docenza subiranno anche ulteriori riduzioni dovute alle revisioni dei curricoli, la situazione dal punto di vista occupazionale si preannuncia chiaramente disastrosa.

Gli istituti tecnici e professionali che entrano nella sperimentazione quadriennale della filiera dovranno infatti adeguare la loro offerta formativa alle esigenze economiche dei territori, piegando quindi le finalità educative a quelle economiche. La progettazione della didattica, finora compito esclusivo del collegio dei docenti, sarà elaborata tramite partenariati col mondo delle imprese e con soggetti economici presenti sul territorio.

Questo renderà possibile stipulare contratti di prestazione d’opera con soggetti esterni facenti parte del mondo del lavoro, delle imprese e delle professioni, che entreranno a scuola per svolgere specifiche attività di insegnamento. Gli istituti tecnici e professionali della filiera così denominata, cioè quelli che entrano in questa sperimentazione, dovranno infatti obbligatoriamente stipulare accordi con soggetti pubblici ma soprattutto privati e costituire reti denominate campus. Il termine campus non deve assolutamente evocare l’immagine di scuole dall’edilizia perfetta, collocate su soffici prati e dotate di tutte le più moderne attrezzature. Allo stesso modo in cui gli ambienti digitali del PNRR non sono ambienti fisici, nemmeno questi campus lo sono, rappresentando invece reti di accordi che vincolano al rapporto sia con enti pubblici che, soprattutto, col settore privato e imprenditoriale in grado di costruire appunto la “filiera”.

I curricoli saranno pesantemente rivisti, poiché gli accordi territoriali che vorranno incrementare determinate discipline potranno abbatterne altre. Un esempio: attualmente tutte le scuole secondarie di qualsiasi tipologia, dal liceo classico ai professionali, hanno quattro ore settimanali di italiano, ma non è detto che possa e voglia essere mantenuto per le scuole di filiera; a dare la linea didattica saranno infatti le esigenze del territorio, non i criteri didattici di ordine generale che, sia pur con tutti i loro limiti, sono alla base dei curricoli nazionali degli indirizzi di studio.

Inoltre, per i percorsi di alternanza scuola lavoro (PCTO), attualmente affidati alle convenzioni che la scuola decide di stipulare, la riforma, oltre ad un aumento massiccio delle ore di alternanza, assicura la centralità delle strutture produttive territoriali come soggetto promotore. Andando poi oltre l’alternanza, la riforma prevede come elemento qualificante l’apprendistato di primo livello, che inquadrerà gli studenti che stanno facendo un percorso scolastico in veri e propri contratti lavorativi di apprendistato.

Riepilogando dunque, il diritto allo studio viene aggredito e impoverito su più fronti: con la perdita secca di un anno di scuola, con la revisione dei curricoli e l’esternalizzazione di ore di docenza diretta affidate all’impresa, con l’aumento di ore di alternanza scuola lavoro, con l’introduzione dell’apprendistato. E naturalmente non si tratta solo di una sottrazione di ore ma di una nuova concezione dell’istruzione tecnica e professionale.

Per meglio comprendere il cambiamento è bene capire qual è la situazione di partenza.

Attualmente esistono gli istituti tecnici e i professionali statali, di durata quinquennale.

Esistono poi, già ora, anche percorsi ibridi denominati IeFP (istruzione e formazione professionale) e IFT (istruzione e formazione tecnica), gestiti dalle Regioni, che hanno finalità prettamente professionalizzante, con impianto orario modulare e ampio spazio riservato a stages aziendali. Sono percorsi che di fatto competono negativamente con la scuola pubblica, che incentivano l’abbandono scolastico a favore dell’addestramento lavorativo, anche se si propongono in modo accattivante nella mission di recupero della dispersione; sono inoltre percorsi che hanno una distribuzione molto difforme sul territorio, rappresentando di fatto già una forma di regionalizzazione. Tutti aspetti negativi spesso criticati e denunciati dai settori più coscienti e più critici dei lavoratori della scuola. Sono comunque percorsi che, se si vuole conseguire il diploma pari a quello rilasciato dalle scuole statali di durata quinquennale, richiedono poi un allineamento con i percorsi statali e l’obbligo di sostenere l’esame di stato conclusivo. Attualmente infatti è solo col diploma quinquennale che si accede ai percorsi qualificanti post diploma (ITS Istruzione tecnica superiore) o all’Università.

Con l’introduzione della filiera formativa tecnico professionale la situazione cambia.

I nuovi percorsi quadriennali previsti dalla riforma in discussione non sono un percorso parallelo, ma intervengono direttamente sul quinquennio statale ordinamentale e consentono l’accesso alla successiva formazione post diploma (ITS) eliminando non solo un anno di scuola, ma anche l’esame di stato conclusivo attualmente previsto alla fine del quinquennio, che viene sostituto da una validazione affidata nientepopodimenoché all’Invalsi. Sarà una validazione rilasciata in deroga alle disposizioni vigenti attuali, quindi si tratterà di una sorta di falso diploma legalizzato che creerà una zona grigia nel già complicato panorama dei titoli di studio e nei relativi accessi al lavoro.

Intanto però l’Invalsi, contestatissimo ente di ricerca ideato per compiti valutativi di altro tipo (test su apprendimenti standardizzati, accertamento di obiettivi raggiunti dalle scuole, individuazione di fasce di merito degli istituti e conseguenti flussi di finanziamenti…) e che comunque non è un Ministero, ma un ente a cui il Ministero appalta una sorta di studio di settore, si accaparra il mercato delle validazioni conclusive dei percorsi tecnici e professionali sperimentali statali della filiera, assumendo di fatto competenze che sono dello stato.

L’abolizione dell’esame finale sostituito da una certificazione Invalsi va letta anche come un primo passaggio verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio, obiettivo che da tempo è perseguito da vari governi e relativi ministeri, allo scopo di annullare il discrimine tra la scuola pubblica e quella privata; sono innegabili infatti gli enormi vantaggi che la scuola privata ne trarrebbe. È evidente dunque come questa riforma disarticoli l’unitarietà del sistema di istruzione e agevoli l’immissione sul mercato di una serie di titoli di studio diversificati anche per valore, molto legati non solo alla tipologia di scuola e al percorso effettuato, ma anche al territorio in cui sono stati conseguiti.

Un altro elemento importante legato alla riforma è quella dell’accesso universitario. Chi esce dai percorsi quadriennali di filiera con certificazione Invalsi potrà accedere agli ITS ma non all’Università. Se vorrà farlo dovrà transitare nel percorso quinquennale tradizionale e sostenere l’esame di stato. Sempre che la sperimentazione non dilaghi e non cancelli i percorsi tradizionali. In tal caso di Università non se ne parla. Non è cosa di poco conto. L’accesso all’Università per chi proveniva da percorsi tecnici e professionali fu aperto nel 1961 ed esteso in modo generalizzato a tutte le facoltà nel 1969, in un momento di lotte potenti in cui prendeva corpo la scuola di massa; erano i tempi in cui “anche l’operaio vuole il figlio dottore”, tempi che, almeno sulla carta, rompevano i limiti all’accesso universitario per tutti.

Questa riforma di fatto reintroduce i i limiti all’accesso universitario, tornando ad una sorta di doppio canale – tecnico professionale da una parte e liceale dall’altra – legata a un’ottica classista ed escludente, volta ad inchiodare un’utenza studentesca statisticamente “più proletaria” ad un livello di istruzione più basso. I giovani liceali vengono tirati su col mito di poter approfondire il sapere e dedicarsi alle proprie inclinazioni in vista di successo e prestigio sociale; i giovani dei tecnici e dei professionali vengono alimentati col mito dell’occupazione, dello studio ridotto al minimo a tutto vantaggio della pratica, dell’addestramento, in vista di un “ lavoro immediato”, che significa in realtà sfruttamento permanente.

È evidente che questo riedizione del sistema duale, rivisitato secondo la logica dall’integrazione pubblico-privato, stacca un pezzo di istruzione per consegnarlo in pasto al sistema produttivo e plasmarlo sulle esigenze momentanee del mercato, creando una fetta di “subdiplomati” usa e getta, un esercito di riserva dequalificato utile per qualsiasi ristrutturazione economica, addestrato a rispondere solo ad esigenze parcellizzate poste dalle economie dei territori. La totale dipendenza del sistema di istruzione dalle esigenze economico imprenditoriali del territorio porta ovviamente con sé una disparità di opportunità formative nelle varie parti del paese, con ricadute pessime sulle prospettive dei giovani, assecondando quella regionalizzazione dell’istruzione (e di altri ambiti) su cui i governi da qualche legislazione a questa parte si stanno spendendo in modo trasversale, aldilà delle pretestuose campagne contro l’autonomia differenziata con cui alcuni settori politico sindacali cercano attualmente di mascherare l’obiettivo.

Nonostante l’iter parlamentare che il disegno di legge dovrà affrontare, la riforma partirà come sperimentazione a partire dal 2024-25 e dovranno essere le scuole, attraverso i Collegi dei docenti, ad approvare le sperimentazioni. Il momento è quello strettamente attuale: è in questo autunno che si avviano le sperimentazioni su cui le scuole andranno a raccogliere, entro il prossimo febbraio, le iscrizioni degli studenti a questi percorsi di filiera. Si apre quindi una fase delicatissima, in cui è fondamentale che i docenti prendano consapevolezza della manovra in atto, che recuperino protagonismo decisionale, che si sottraggano alle inevitabili sollecitazioni di solerti dirigenti scolastici incaricati di ridurre al consenso le scuole che amministrano per guadagnare meriti e premi di risultato presso il Ministero. E’ fondamentale che i sindacati di base e conflittuali lancino una mobilitazione su questa riforma, come già alcuni stanno facendo. Ma soprattutto è importantissimo che si diffonda tra gli studenti e più in generale nella società, una risposta forte in grado di contrastare questa pesantissima manovra. Contro chi vuole distruggere posti di lavoro, rendere sempre più classista la scuola, aumentare lo sfruttamento. No alla scuola dei padroni!

Patrizia Nesti

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