Riaprendo la questione della forma corteo,[1] analizzandola contestualmente alla fase che stiamo attraversando, permane un dubbio sulla reale efficacia dello strumento così come viene oggi proposto. Fra manifestazioni dei lavoratori attraverso i sindacati di base, cortei contro la guerra, manifestazioni per l’ambiente, studentesche, dei disoccupati ecc. si assiste ad un proliferare di cortei su base nazionale che ripropongono un canovaccio simile di stagione in stagione. Le uniche variazioni apprezzabili sono il numero dei partecipanti che pare aver imboccato una sorta di fase calante.
Da ciò si possono fare una serie di deduzioni. Alcune le accantoniamo in quanto sterili e banali, tipo che la forma corteo non ha più senso: ritengo invece sia tutt’ora valida, ma forse quello su cui dovremmo concentrarci è il perché della sua attuale inefficacia. Il motivo potrebbe apparire chiaro solo alla luce di uno sforzo di profonda autocritica di tutta quell’area che possiamo definire di movimento, la quale pur nella sua strema eterogeneità ha comunque assunto una posizione univoca nelle pratiche di dissenso. Ha cioè sostanzialmente abdicato al lavoro continuato nei territori, preferendo trasferire il conflitto da pratica quotidiana giocata nei contesti reali, ad un dissenso mediatizzato giocato sulle piazze virtuali dei social forum.
Utilizzando il meccanismo del corteo come fine ultimo di una campagna mediatica, invece che come strumento tattico di pressione per coagulare il dissenso e ricomporre un tessuto sociopolitico sfrangiato, si è via via inflazionato il senso stesso della mobilitazione di massa. Un altro dato da analizzare è che cambiano le parole d’ordine di anno in anno, cambiano le tematiche del dissenso ma non le pratiche che pretenderebbero di innescare il conflitto: i territori non vengono più intesi come luoghi del conflitto permanente, ma come terreno per misurare la propria presenza, nel momento in cui esplode qualche vertenza (chiusura di poli industriali o grosse attività) o si manifesta per arrestare dei processi aggressivi (discariche, grandi opere, ecomostri, inquinamento ecc.).
Si assiste quindi ad un arretramento della presenza fisica negli ambiti locali, ci si limita spesso ad una presenza/resistenza di quartiere nella migliore delle ipotesi, il tutto “controbilanciato” da una azione massiva sulla rete ed alla creazione di eventi, spesso scollegati tra loro e dalle specifiche criticità locali. Iniziative che seguono fili comprensibili, forse, ai soli addetti ai lavori, solidarietà pur giusta a situazioni e compagni in difficoltà si intrecciano a campagne nazionali che seguono, col fiato corto, le scadenze delle varie agende economiche, politiche o di grandi eventi mediatici. Sotto questa prospettiva il contro evento, il grande corteo nazionale, assume sempre più i connotati di una meta sulla quale misurare l’appeal della tematica e/o il grado di egemonia di un’area sul resto della costellazione di movimento.
Si assiste inoltra alla proliferazione di vertenze da portare in piazza, che spesso si risolve in una atomizzazione dei fronti di conflitto, una specializzazione delle lotte che poi faticano a trovare una sintesi se non ricorrendo a piattaforme a maglie larghe per accumulare il consenso minimo da portare in piazza senza fare figuracce. La specializzazione eccessiva crea difficoltà di comprensione delle diverse modalità di aggressione dei territori. Crea inoltre frammentazione e difficoltà di comprensione delle reciproche logiche di opposizione ai processi di aggressione dei diritti; ciò si ripercuote innegabilmente sulle azioni collettive. Istanze conflittuali isolate, che stentano a ritrovare una traccia comune di conflitto unitario pur nell’evidenza dei meccanismi di riproduzione della società a capitalismo avanzato nella quale ci troviamo. Da qui il cul de sac del ricorso alla forma corteo, sempre intesa come evento mediatico di rilievo nazionale, non come strumento di pressione politica ma come momento collettivo di affermazione dell’esistenza di un’opinione dissonante.
Questo trend è talmente evidente e l’autocritica sulla mendacia di questo meccanismo è così ardua da intraprendere da raggiungere una situazione di impasse, della quale hanno prontamente approfittato i vari governi inserendo i daspo urbani ed i controlli ai caselli. Ciò avrebbe dovuto innescare una contromossa, un ripensamento tattico-strategico, riadattando e ridefinendo la forma corteo su base locale.
Un ripensamento in grande per un ritorno al piccolo, al quotidiano, che non regalerà forse i titoloni sui giornali, che non prevede conte a 3 zeri, ma che potrebbe riavvicinare alle contraddizioni reali dei luoghi nei quali viviamo. Questo però avrebbe sicuramente evidenziato quel che spesso si fa finta di non vedere, ossia la scarsa presa sui territori. Da qui nasce forse la riflessione più amara, ossia che è più semplice stipare una cinquantina di persone su un pullman piuttosto che farne scendere in piazza 4-500 nel proprio territorio. I cortei di “tenuta” sono quindi spesso composti dai comitati locali in forma ristretta, ossia dal ceto politico locale (o la compagneria se così la possiamo definire). Lo si evince dai report informali che si fanno all’indomani dell’evento, alla domanda “chi c’era?” La risposta è spesso “i soliti”.
Questo dato è probabilmente il più allarmante e dovrebbe essere preso in seria considerazione, non tanto per una questione di credibilità in sé delle proteste, quanto del fatto che a proporre le mobilitazioni siano sempre gli stessi soggetti ed a cambiare siano solo le tematiche, non perché quelle dell’anno precedente siano state risolte, semplicemente perché non “bucano più” l’attenzione mediatica. Quindi il paradosso si completa e appare nella sua disarmante idiosincrasia: da un lato tentativi per dimostrare di esistere e lotte intestine per cavalcare ed egemonizzare la tematica più in voga, dall’altro un abbandono dei territori e delle aree locali, ossia gli ambiti bisognosi di una reale organizzazione del conflitto, che viene quindi riempita dalla propaganda forcaiola e giustizialista delle varie anime destroidi.
Forse sarebbe il caso di cominciare a ripensare alle strategie, a tirare il freno e rallentare, riconoscendo che spesso con o senza corteo (fatti salvi i casi di mobilitazioni mondiali contro stermini sistematici o altro) l’agenda governativa non la si cambia, il grande evento non si blocca. Agendo forse più capillarmente a livello locale si potrebbe forse porre le giuste domande alla popolazione per riuscire a portare in luce le contraddizioni più marcate che contraddistinguono la nostra fase storica. Ripartire, agendo lì dove le strategie economiche del mercato neoliberista spolpano fino all’osso le risorse ambientali, economiche, sociali e umane. Ritessere delle relazioni di complicità fra luoghi che soffrono delle stesse prevaricazioni e convincere le persone che il livello del conflitto è quello della strada davanti l’uscio di casa più che il selciato di piazza Montecitorio, è dall’ambito locale che partono le deleghe che legittimano la governance.
Ben venga la forma corteo se reindirizzata verso una pressione continuata e crescente sulle linee forze del sistema politico-economico che ci sta stritolando, non come evento da mettere nell’album delle figurine.
JR
NOTE
[1] “Cosa Resta del Corteo”, in Umanità Nova, 7 Giugno 2015 https://www.umanitanova.org/?p=782