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Il ritorno del fascismo al potere. Una controrivoluzione preventiva?

Il ritorno del fascismo al potere. Una controrivoluzione preventiva?

Alcuni anni prima che l’anarchico Luigi Fabbri scrivesse il testo La Controrivoluzione Preventiva. Riflessioni sul Fascismo, il mondo era stato sconvolto dai disastri, i lutti e le miserie della Prima Guerra Mondiale; poi a guerra ancora in corso, a partire dalla Rivoluzione del febbraio russo, era arrivata la speranza di un mondo nuovo, di liberi e di uguali, che mettesse fine per sempre al dominio dell’uomo sull’uomo ed al suo micidiale correlato – la guerra. Anche in Italia con il Biennio Rosso una tale rivoluzione sembrava possibile ma essa non venne, in quanto il potere politico e le classi dominanti la impedirono tramite “una vera e propria controrivoluzione preventiva, di cui il fascismo è stato il fattore più attivo ed impressionante.”

Questa frase è tratta appunto dal testo di Luigi Fabbri, dove per la prima volta il fascismo veniva letto come un processo interno alla società liberale, che aveva costruito un processo politico che non era un semplice ritorno al passato ma qualcosa di nuovo, maggiormente adatto a contrastare la novità del movimento operaio, le sue forme organizzative e le sue speranze in un futuro diverso. Non si trattava, infatti di una semplice abolizione dei diritti politici, sociali e culturali imposti dal movimento operaio alla società borghese, a favore di un anacronistico ritorno all’Ancien Régime di difficile attuazione nell’era del capitalismo industriale; era invece il tentativo di nascondere una feroce dittatura delle classi dominanti dietro l’imitazione di determinati aspetti delle organizzazioni e delle idealità del movimento operaio. Il fascismo, infatti, si presentava come antiborghese e filopopolare, andando così a pescare nello stesso bacino della sinistra e rendendo più efficace nel tempo la sua azione di controrivoluzione preventiva e di sostegno alla società borghese.

Negli anni tra le due guerre il triste esperimento italiano si diffuse un po’ dappertutto nel mondo, con diverse specificità e forza nei vari luoghi, giungendo prima della Seconda Guerra Mondiale al potere in vari Stati: quasi in contemporanea all’Italia in Ungheria e, a seguire, in Portogallo, in Austria, in Germania, in Bulgaria, in Grecia, in Spagna. È interessante notare come, nessuno escluso, tutti i paesi in cui i diversi fascismi riuscirono a giungere autonomamente al potere avevano una caratteristica in comune: qualunque fosse stata la scelta che avevano fatto i loro governi sulle teste dei governati – schierarsi da subito per l’una o l’altra alleanza, farlo in corso d’opera, mantenersi neutrali – le nazioni ne erano uscite con le ossa rotte. Il caso italiano è emblematico: con il termine “vittoria mutilata” si andò ad indicare la situazione di un governo “vincitore” formalmente che aveva però ottenuto davvero ben poco per giustificare il circa milione e duecentoquarantamila di morti ed i circa altrettanti tra feriti e mutilati permanenti che aveva imposto al suo popolo.

La cosa probabilmente non è affatto casuale. In effetti, non va dimenticato che durante la guerra i governi controllano i media e danno informazioni del tutto sballate alle proprie popolazioni per giustificare una scelta così feroce verso il destino dei sudditi che poi, a guerra finita, cozzano all’improvviso con la realtà oggettiva delle cose. Nelle nazioni effettivamente vincitrici, bene o male il senso nazionalistico che è stato ipersviluppato durante la guerra viene rafforzato, almeno per un certo tempo, dall’effettiva vittoria ed i conflitti sociali sono relativamente sopiti; nelle nazioni sconfitte o con una vittoria puramente formale, le popolazioni provano odio verso chi li ha portati nel disastro. Anche perché in tutte le guerre quasi fino all’ultimo istante i media del paese sconfitto hanno raccontato ai sudditi la favola della vittoria e, di conseguenza, oltre al dolore per i lutti, questi si sentono anche presi per anni per i fondelli. Le ribellioni, pertanto, sono difficili da controllare e diventano un enorme problema per le classi dominanti; dopo la prima guerra mondiale il fascismo è stato la risposta.

Il fenomeno delle Resistenze, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ci ha salvato da questo destino: non potendo più il potere utilizzare facilmente il fascismo, per almeno una trentina d’anni, il movimento operaio è riuscito, sia pure parzialmente e con varie eccezioni, in particolare le dittature militari tipiche del continente latinoamericano, ad imporre uno sviluppo ulteriore dei diritti politici, sociali e culturali. Oggi, però, in vari paesi del cosiddetto “mondo occidentale” e non solo si cominciano a vedere nuovamente al governo partiti esplicitamente legati alla tradizione nazifascista. Uno di questi è l’Italia. Il fatto che al momento non si muovano in direzioni esplicitamente dittatoriali non può rassicurarci: molti di questi movimenti – il fascismo italiano è un ottimo esempio – hanno mostrato la loro autentica natura in maniera graduale.

Una cosa che si è poco notata è che la rinascita del fascismo in Europa a livello istituzionale coincide sia con il sempre maggiore impoverimento delle popolazioni sia con il ritorno della guerra nel continente europeo e nelle sue immediate vicinanze. Non sono di sicuro cose di oggi ma i livelli di immiserimento e di coinvolgimento nella guerra stanno aumentando sempre di più, da un anno a questa parte. Certo, come suol dirsi, la compresenza di eventi non implica che siano uno causa dell’altro – non lo si può però nemmeno escludere, dato il passato appena rammentato.

Ancora una volta, la lezione di Luigi Fabbri potrebbe offrirci una corretta visione del reale: il caso francese potrebbe essere solo l’assaggio di ciò che le classi dominanti temono, se la scommessa che l’intero mondo occidentale ha fatto sulla guerra in Ucraina venisse, nonostante tutta la propaganda ed i notevoli sacrifici, inequivocabilmente persa.

Enrico Voccia

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