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Il paradigma della mobilità

Il paradigma della mobilità

Tra le notizie che non mancano mai nel flusso mediatico troviamo certamente quelle che riguardano i trasporti. Che si tratti della coda in autostrada, del treno dei pendolari bloccato, dell’incidente del sabato sera, del “fermo” delle auto inquinanti, piuttosto che dello sciopero della metropolitana, pare che il tema legato al movimento di persone e merci sia sempre popolare. Perché tanta attenzione? Rispondiamo con un’altra domanda: “Da cosa dipende la richiesta di mobilità?”

Ognuno di noi potrebbe dare risposte diverse, ma se andassimo alla ricerca di una radice comune troveremmo sostanzialmente due motivazioni: la prima legata al soddisfacimento dei bisogni materiali, mentre la seconda corrisponderebbe a quella cui appartengono i bisogni immateriali, le aspirazioni generate dalla sfera emotiva/intellettuale.

Cerco di spiegarmi meglio con degli esempi. La necessità di soddisfare i bisogni materiali fin dai primordi della vicenda umana sul pianeta comprende: le forme di movimento finalizzate alla ricerca del cibo, com’era tipico delle popolazioni umane dei raccoglitori/cacciatori, quelle causate da eventi naturali avversi, quelle per sfuggire alla violenza di altri umani così come quelle messe in atto per conquistare nuovi territori o per sottrarsi a condizioni di sfruttamento, precarietà e miseria. La storia è piena di trasferimenti volontari, deportazioni, esodi, invasioni, migrazioni. All’interno di questa categoria rientrano anche, molto più banalmente, i quotidiani spostamenti che si compiono per raggiungere il posto di lavoro, per andare dal panettiere, all’ospedale, all’ipermercato e via di questo passo.

La casistica che riguarda la seconda motivazione fa, invece, riferimento agli spostamenti che possono essere finalizzati: al raggiungimento di un particolare luogo naturale, al piacere del viaggio in quanto tale, alla voglia di conoscere altro, piuttosto che ad una naturale aspirazione a varcare il “confine”. Di nuovo, più banalmente, in questa stessa categoria rientrano: l’andare a farsi il bagno al mare, una gita in montagna, la volontà di raggiungere la sede di una mostra, di un convegno, di una manifestazione, piuttosto che la persona di cui si è innamorati.

Seguendo ancora questo parallelismo credo si possa sostenere che la prima serie di ragioni sia vissuta, dai più, come una necessità imposta dall’esterno, una costrizione, mentre è più naturale associare le seconde all’idea del piacere e della libertà. Del resto la condizione di prigionia ha come primo effetto proprio quello di impedire il movimento.

In questa doppia finalità si innesta un’ ulteriore dicotomia: per soddisfare la necessità di cui sopra si può utilizzare il sistema del trasporto pubblico o quello privato. Per la verità, oggi, soprattutto nei grandi centri urbani si sta affacciando un’altra modalità che prevede una forma di condivisione del mezzo di trasporto (mi riferisco alle varie forme di car sharing, bike sharing) che costituiscono una parziale alternativa ai primi due, ma di questo parleremo nella puntata sulla mobilità sostenibile.

Ho indugiato in questa introduzione per rendere evidente che questo argomento può essere trattato ponendo l’attenzione su diverse questioni: quelle socio-economiche così come quelle ambientali fino a toccare alcuni aspetti della psicologia umana, come ben sanno i pubblicitari che preparano gli spot per sostenere la vendita delle automobili. È emblematico, in questo caso, pensare proprio alle campagne pubblicitarie che si susseguono incessantemente; ho verificato, a spanne, che circa il 30% degli spot televisivi riguarda le auto. I messaggi che ne promuovono l’acquisto trascurano, di fatto, di mettere in evidenza le caratteristiche del mezzo di trasporto in quanto tale cercando, piuttosto, di stimolare l’immaginario emotivo. Le situazioni rappresentate sono esattamente l’opposto delle quotidiane esperienze di realtà vissute dai comuni mortali, spesso bloccati nel traffico urbano, circondati da guidatori aggressivi, immersi nei gas di scarico dei motori dei loro stessi veicoli. Del resto non potrebbe essere altrimenti considerando che, nelle società ricche, l’automobile ha assunto un sempre più evidente significato di status symbol.

Come qualcuno avrà intuito, sto spostando l’attenzione sul mezzo di trasporto privato motorizzato più diffuso al mondo. Cercherò, anche ricollegandomi ad un recente articolo apparso sul n. 8 di UN “Diesel o non diesel”, di affrontare il tema mettendo in primo piano alcune informazioni che aiutino ad inquadrare la questione da diverse angolazioni.

Nelle città oltre il 66% degli spostamenti avviene con l’autovettura privata, il 15% a piedi ed il 10% con i mezzi pubblici, tuttavia nei grandi centri urbani gli spostamenti con l’autovettura privata si riducono al 47% a fronte di un maggiore utilizzo dei mezzi pubblici che sale fino al 23%. (Fonte: ISFORT su dati relativi al 2014). Il tasso di motorizzazione in Italia, con dati aggiornati al 2013, è di 608 autovetture ogni 1.000 abitanti, inferiore in Europa soltanto al Lussemburgo ed alla Lituania, il dato medio dei Paesi UE è di 489,3 (Fonte Istat). Il numero di autovetture circolanti in Italia nel 2014 è di circa 37 milioni, sostanzialmente invariato rispetto al 2013 (Fonte ACI). Negli ultimi anni qualcosa è cambiato nelle nuove immatricolazioni perché il dato diffuso dall’ ACEA (Associazione europea costruttori automobili), relativo al primo semestre del 2017, indica che in Europa, le vendite di auto a benzina sono tornate a superare quelle del diesel, un risultato che non si registrava dal 2009. Il mercato del diesel, comunque, riguarda ancora il 43,8% delle vendite. Il dieselgate, partito con lo scandalo Volkswagen, gli annunci di futuri blocchi del traffico e le dichiarazioni dei “colossi” automobilistici che annunciano, a scadenza più o meno breve, l’abbandono della produzione delle motorizzazioni alimentate a gasolio hanno sicuramente influenzato l’opinione pubblica.

Concentrandoci sulle auto con motori a combustione interna non possiamo ignorare che ogni trasformazione chimica dei reagenti determina la formazione di nuovi prodotti, ciò vale anche per la combustione che utilizza i classici combustibili fossili quali: benzina, gasolio, GPL (gas da petrolio liquefatti) e metano. Questi reagendo con i gas dell’aria liberano energia e altre sostanze che sostanzialmente sono: il diossido di carbonio (CO2) che è uno dei gas responsabili dell’effetto serra, ma non direttamente nocivo per l’uomo come invece sono altri inquinanti: monossido di carbonio (CO), idrocarburi incombusti (HC), ossidi di azoto (NOx) ed il particolato (PM).

Fra i consumi di un’auto e le sue emissioni di CO2 c’è una correlazione diretta: tanto più una vettura consuma, tanta più CO2 emette. L’unico modo per contenere la CO2 è diminuire i consumi. A questo proposito nella tabella n.1 si mettono a confronto i quantitativi di CO2 emessi a seconda del combustibile utilizzato il che dipende dalla composizione chimica di ognuno.

 

Tab. 1 Emissioni di CO2 per tipo di combustibileMarTa

Tab.2 Fiat Panda

Consumo

Emissioni di CO2

2380 g per litro di benzina

1.2 a benzina

5,6 l/100 km

133 g/km

1610 g per litro di GPL

1.2 a Gpl

7,2 l/100 km

116 g/km

2750 g per Kg di metano

1.2 a metano

4,1 kg/100 km

113 g/km

2650 g per litro di gasolio

1.3 a gasolio *

4,3 l/100 km

114 g/km

 

Ovviamente i dati vanno rapportati ai consumi effettivi che l’auto determina nel suo percorso stradale come si può ricavare dalla tabella n. 2 dove si paragonano i dati di una stessa vettura Panda (* cilindrata effettivamente in commercio) alimentata con combustibili diversi.

Per consentire l’immatricolazione e la vendita delle auto nuove, dal 1991 l’Unione Europea ha emanato le direttive per diminuire progressivamente le emissioni inquinanti; quello che forse sfugge è che i valori limite fissati per le emissioni specifiche di CO2 delle auto sono in funzione diretta della loro massa (peso). Tale approccio prevede che al crescere del peso del veicolo aumenti anche il valore limite da rispettare; pertanto le autovetture più leggere dovranno rispettare valori inferiori a quelli limite mentre per le più pesanti i valori saranno notevolmente superiori. Ogni casa costruttrice deve quindi dimostrare alla fine di ogni anno che l’insieme delle auto vendute raggiunga un valore medio di emissioni corrispondente a quanto richiesto dal regolamento: tale valore viene calcolato tenendo conto del numero e del peso delle auto vendute.

Qualora l’obiettivo annuale non venga raggiunto, i costruttori sono sanzionati dalla Commissione Europea con una multa unitaria che, a partire dal 2021, sarà pari a 95 euro per grammo di CO2 di superamento moltiplicata per il numero di auto vendute. Secondo le previsioni per qualche marchio si tratterebbe di multe di qualche centinaio di milioni di euro… vedremo quale gabola s’inventeranno per non pagarle.

Peraltro, una è già prevista. Per non penalizzare alcuni produttori, è stato raggiunto un accordo che permette di calcolare la media ponderata solo sul 95% delle auto vendute, esentando un certo numero di vetture sportive o comunque caratterizzate da elevati livelli di emissioni. Come al solito siamo di fronte a quel genere di compromessi che tutelano più le politiche commerciali che quelle ambientali e sanitarie.

Prova ne sia che si può acquistare un Hummer del peso di 3900 kg che percorre 5 km con un litro di carburante o uno dei SUV, di moda, con una massa intorno ai 2000 kg in grado di coprire una distanza di soli 10-11km/l in condizioni ottimali. Ma scusate, dal punto di vista razionale, che senso ha muovere un veicolo di 2000 kg per trasportare un individuo di 70 kg, visto che le auto viaggiano spesso con una sola persona a bordo?

Gli inquinanti cui è stata rivolta maggiore attenzione attraverso la successione delle normative Euro sono: gli ossidi di azoto, specie per i diesel ed il particolato, che in dimensioni ultra fini viene generato anche dai motori benzina. Lo standard iniziale, Euro 1° ottobre 1994, garantiva che le auto diesel emettessero non più di 780 mg/km di NOx, mentre per i motori benzina il picco massimo era di 490 mg/km. Con gli Euro 2, fine 1997, si scese per i motori diesel ai limiti di NOx a 730 mg/km; seguiti poi da Euro 3 nel 2000 con un abbassamento del limite a 500 mg/km. Entro il 2006, entrarono in vigore le limitazioni Euro 4 con riduzione di NOx a 250 mg/km fino a 180 mg/km nel 2009, con Euro 5, (riduzione del 28%). In base alle nuove norme Euro 6, tuttavia, il livello massimo per gli NOx per motori diesel è 80 mg/km (riduzione del 55% rispetto ad Euro 5) contro i 60 mg/km per i veicoli a benzina (riduzione del 25% da Euro 4 a Euro 6). Da Euro 4 ad Euro 6 non hanno invece subito riduzioni inquinanti come il monossido di carbonio (CO) e gli idrocarburi incombusti (HC). Come si può osservare nelle tabelle sottostanti.

Discorso diverso per il particolato il quale subisce una lieve riduzione in termini di PM (quantità espressa in g/km) per i motori benzina, da 5 mg/km a 4.5 mg/km tra Euro 5 ed Euro 6. Per i diesel invece, si ha una riduzione dell’80% tra Euro 4 ed Euro 5 (da 25* a 5 mg/km *dato mancante in tabella) fino ad eguagliare il limite dei benzina.

Il passaggio ad Euro 6(X) rende più severa la limitazione del particolato poiché si inizierà a valutare il numero di particelle emesse PN e non solo la quantità in µg/m³ del PM10.[1] Da questi dati si deduce che i motori diesel omologati in passato hanno goduto di trattamento differenziato ma per gli Euro 6, con filtro anti particolato efficiente, registriamo un livello di emissioni che rimane superiore a quelli benzina solo per i valori relativi agli NOx. Secondo gli esperti, però, il motore diesel avrebbe raggiunto la “maturità” dal punto di vista tecnologico il che determinerebbe un consistente aumento dei costi per ogni ulteriore miglioramento, fatto che renderebbe tale opzione non più concorrenziale dal punto di vista commerciale, in questo senso il diesel ha gli anni contati.

È palese come questo concetto fosse ben chiaro nelle teste dei dirigenti delle case automobilistiche che hanno “contrattato” le politiche “ambientaliste” dei governi perché, di fatto, oltre a darsi una sempre utile “patente ecologica” con queste misure hanno, di fatto, accorciato notevolmente il ciclo di vita del prodotto auto. Tra l’altro lo scandalo del dieselgate ha chiaramente mostrato che là dove le soluzioni tecniche non garantivano il rispetto delle normative si procedeva con la sofisticazione dei test. Test già discutibili nella loro versione legale perché svolti in prove da “banco” (ciclo standardizzato) molto lontane dalle condizioni reali di utilizzo. È per questa ragione che, nonostante la progressiva riduzione delle emissioni testate e dichiarate ufficialmente, i livelli di alcuni inquinanti nell’aria rimangono elevati. Il ciclo standardizzato è realizzato tenendo conto dell’uso del veicolo da parte di un conducente medio europeo. L’impiego di cicli standardizzati consente misure comparabili su veicoli diversi secondo basi oggettive in quanto alcune delle variabili esterne che influiscono sul consumo sono determinate secondo una procedura uniforme.

Altre variabili come le condizioni di traffico, pendenza e curvatura della strada, livello di carico del veicolo, condizioni ambientali, stile di guida, modifica della resistenza all’avanzamento che deriva dall’utilizzo di portabagagli esterni o di altri dispositivi peggiorativi per l’aerodinamica, non possono essere considerate con una prova standardizzata per il rilievo dei consumi. Inoltre, nell’esecuzione del ciclo di prova standardizzato, non sono attivati tutti gli impianti ed i dispositivi ausiliari come, ad esempio, l’impianto d’aria condizionata, i sistemi per l’intrattenimento (radio, riproduttori di CD, video), l’ausilio alla guida (navigatori), l’impianto di illuminazione come le luci di posizione o gli abbaglianti, ecc., che nella vita reale vengono utilizzati secondo le esigenze momentanee o secondo i gusti personali degli utenti ed influiscono sui consumi.

La procedura in vigore da più di 20 anni, fino al 2017, ciclo NEDC (New European Drive Cycle) oggi WLTC, sarà sostituita dalla nuova procedura di prova dei veicoli leggeri armonizzata a livello mondiale, denominata (Worldwide Harmonized Light Vehicles Test Procedure, WLTP) con l’obiettivo di ottenere in sede di omologazione valori di emissioni inquinanti e di consumi molto più aderenti a quelli che gli utenti possono riscontrare nella guida su strada. C’è da chiedersi se questa nuova procedura non determinerà anche un aggiustamento dei parametri da rispettare divenendo più gestibile per i costruttori (nel filone di pensiero per cui pensar male è brutto ma ci azzecchi quasi sempre). Infine, anche se non ho prove a riguardo, credo che molte utilitarie fossero in grado di rispettare i limiti più restrittivi già nelle loro precedenti versioni ma tale caratteristica sia stata “diluita” nelle successive omologazioni per garantire una precoce sostituzione del parco circolante. Intendo suggerire che, ad esempio, il modello che porta lo stesso nome dell’orso simbolo del WWF immatricolata nel gennaio 2005, classificata come Euro4, avrebbe potuto rispettare già i limiti entrati poi in vigore nel settembre 2009 come Euro5, ma in base al periodo in cui è stata immatricolata rimane una Euro4 soggetta quindi ad “invecchiamento precoce” anche se rispettosa dell’ambiente.

Nella diatriba tra gasolio e benzina si sta inserendo, sempre più decisamente, la soluzione del motore ibrido (benzina/elettrico) che, a parer mio, sarà utilizzata per “traghettare” i consumatori verso l’elettrico, per quest’ultimo i tempi non sono ancora maturi, ne riparleremo… intanto la “giostra commerciale” continua a girare.

Vale la pena di ricordare che secondo uno studio ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale), del 2012, le emissioni di polveri sottili si devono per il 41,32% al riscaldamento (produzione di calore) il 18,43% all’industria e il 16,52% al trasporto su strada di passeggeri e merci. Certo la responsabilità degli autoveicoli è aggravata dal fatto che si concentrano nei centri urbani ad alta densità abitativa; non dobbiamo però pensare solo alle auto dimenticando tutti gli altri mezzi di trasporto su gomma alimentati con motori a combustione oltre a navi ed aeroplani, per non parlare delle centrali termoelettriche, degli inceneritori e le altre forme d’inquinamento antropico.

Solo per aumentare i vostri dubbi: “Ma quanto sono influenzate le emissioni inquinanti dallo stile di guida o dalla pressione dei pneumatici?.

Un consiglio, anche se negli ultimi vent’anni le emissioni delle singole autovetture si sono effettivamente ridotte, non tirate alcun “respiro” di sollievo rischiereste, comunque, di inalare una miscela di “schifezze”.

MarTa

Fonti oltre quelle citate nel testo:

https://www.quattroruote.it/news/eco_news/2010/01/15/consumi_ed_emissioni_per_capirne_di_pi%C3%B9.html

http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/documenti/GUIDA_CO2_2016.pdf

http://amslaurea.unibo.it/10260/1/antonelli_debora_tesi.pdf

  1. Nel 2006 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), riconoscendo la correlazione fra esposizione alle polveri sottili e insorgenza di malattie cardiovascolari e l’aumentare del danno arrecato all’aumentare della finezza delle polveri, ha indicato il PM2,5 come misura aggiuntiva di riferimento delle polveri sottili nell’aria e ha abbassato i livelli di concentrazione massimi “consigliati” a 20 e 10 microgrammi/m³ rispettivamente per PM10 e PM2,5

I limiti per la concentrazione delle PM10 nell’aria che determinano le misure del blocco del traffico in alcune città italiane sono:

Valore Limite per la media annuale40 µg/m³

Valore limite giornaliero (24-ore)50 µg/m³

Numero massimo di superamenti consentiti in un anno civile35 gg/anno


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