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Dossier Brasile parte IV: O garimpo é veneno

Dossier Brasile parte IV: O garimpo é veneno

È di questi giorni la notizia che il Congresso ha approvato un disegno di legge atto a trasferire la competenza per la delimitazione delle terre indigene dal neonato Ministero dei Popoli Indigeni a quello della Giustizia, nel silenzio più assordante del presidente Lula…Il provvedimento era stato presentato da un deputato del Movimento democratico brasilero facente parte del cosiddetto Centrão (un insieme di partiti minori che fanno da ago della bilancia tra la bancada ruralista in maggioranza e l’esecutivo). Il testo, che va nella direzione auspicata dall’agrobusiness e che è stato approvato a fine maggio con 283 voti favorevoli e 155 contrari, più un astenuto, passa ora al Senato. Immediatamente sono scoppiate le proteste in tutto il Brasile che sono sfociate negli scontri tra polizia e indigeni delle comunità guaraní stanziati nella riserva Jaragua alla periferia di San Paolo, sgomberati con la forza per aver bloccato l’autostrada che conduce al porto di Santos.

Della rivendicazione delle terre indigene e di quelle degli afrodiscendenti dei quilombo ne avevamo parlato a Massenzatico ad aprile con i compagni Gustavo e Linguiça dell’IFA Brasil.

Le Lotte afroindigene

UN: Si stima che almeno ventimila garimpeiros abbiano invaso negli ultimi anni la riserva Yanomami nella foresta amazzonica nello Stato brasiliano di Roraima (dati al 2022). Eppure, secondo la legge e l’articolo 231 della Costituzione, l’area dovrebbe essere protetta e l’accesso interdetto ai non indigeni. L’estrazione abusiva di minerali preziosi, cassiterite e oro in primis, ha riversato sulla zona sostanze gravemente inquinanti come il mercurio -la maggior parte dei piccoli minatori utilizza il mercurio per separare l’oro dalla pietra, liberando così sostanze tossiche in forma liquida e gassosa- con ripercussioni sui fiumi, sulle falde acquifere e quindi sul cibo, tagliando fuori gli indigeni dall’accesso alle risorse del territorio che li rende, da sempre, autosufficienti. Ribellione e resistenza vengono sopraffatte con violenze, stupri, torture e omicidi. Con Bolsonaro -secondo il quale gli indigeni “puzzano, non sono istruiti e non parlano la nostra lingua” e il riconoscimento delle loro terre “è un ostacolo all’agrobusiness”-    lo sfruttamento dell’Amazzonia si è ovviamente aggravato. La facilità di riciclare il denaro con l’oro e la mancanza di controlli sono le ragioni principali della migrazione di organizzazioni criminali verso l’attività mineraria. Decine di latitanti, si nascondono all’interno della riserva indigena Yanomami, dove lavorano in collaborazione con i minatori abusivi. Nel 2021 le Big Tech, cioè i GAFA (acronimo di Google/Alphabet, Apple, Facebook/Meta e Amazon), sono state oggetto di un’inchiesta federale per l’utilizzo dell’oro nella fabbricazione di smartphone, server e PC, estratto dai garimpeiros nelle terre indigene dei Kayapó, nel sud dello stato del Parà. L’oro è stato venduto, con tanto di attestati di legalità, all’italiana Chimet S.p.A. (con sede nell’Aretino), che tratta metalli preziosi per il mercato europeo. La criminalità organizzata ha fatto riciclare l’oro ad alcune imprese negli stati di São Paulo, Goiás e Rio de Janeiro, le quali hanno provveduto a “legalizzare” il metallo prezioso. L’oro veniva poi trasportato con voli privati eludendo i controlli. In Brasile la legge prevede che l’indicazione dell’origine dell’oro sia responsabilità del venditore e non dell’acquirente, permettendo anche di non rivelare le zone di provenienza. A differenza della Repubblica democratica del Congo, il Brasile non è ritenuta una “zona a rischio”. Per cui, nonostante le condanne subite da due raffinerie locali, queste mantengono i certificati per la vendita dell’oro sui mercati europei e degli Stati Uniti. Dopo l’inchiesta, solo Apple si è dichiarata disponibile a cambiare i propri fornitori. Che poi l’abbia fatto…

Gustavo/Linguiça: “O garimpo é veneno” (l’estrazione è veleno) dicono gli indigeni. Poi ci sono le dighe idroelettriche o in fase di costruzione nelle aree vicine a quelle abitate dagli indigeni. Privano tanti villaggi indigeni dell’acqua che non arriva più sulle loro terre e quindi, dei mezzi di sostentamento. Ma le dighe forniscono energia a basso costo alle compagnie minerarie, che possono così realizzare attività di estrazione su vasta scala…

Per quanto riguarda le terre è in corso da tempo un processo chiamato il “marco temporal” [il “limite di tempo”, ndr], in seguito alle pressioni dei fazendeiros dell’agrobusiness, per disconoscere i diritti dei popoli indigeni [il 15 settembre 2021 la Corte Suprema ha sospeso a tempo indeterminato il “processo del secolo” secondo cui, i popoli indigeni che non possono provare che al 5 ottobre 1988 -giorno in cui fu promulgata la Costituzione brasiliana- abitavano fisicamente sulle loro terre, non vi hanno più alcun diritto. Il parametro vincola quindi anche le richieste di rivendicazione indigena, che non possono nemmeno essere avanzate senza alcuna dimostrazione…In Brasile ci sono circa 1.290 terre indigene riconosciute come tali dalla Costituzione federale del 1988. Eppure, solo 408 di queste sono state regolarizzate, 287 sono in attesa di demarcazione e oltre 500 sono rivendicate dai popoli senza aver ottenuto alcun riconoscimento dalle agenzie federali. Se la corte bocciasse il marco temporal, le popolazioni potrebbero rivendicare la loro come “terra indigena protetta” e rimanere nei territori dove hanno vissuto per millenni già i loro antenati ndr]. L’agrobusiness si mangia tutto…Quello che va compreso è che anche le imprese brasiliane che operano nel settore lo fanno soprattutto per esportare, a causa del basso valore del real. È quindi in atto una guerra tra capitalismo e lotte afroindigene che rientrano quindi anche nella lotta di classe. Come dappertutto, l’offerta di lavoro è questa…Io stesso [dice Gustavo, ndr] ho lavorato per una compagnia dedita alla coltivazione dell’eucalipto [la silvicoltura, di cui si è parlato nella prima parte, ndr]. Sfortunatamente, bisogna lavorare…

UN: Ah, le aziende del “reflorestamento”?

Gustavo: Proprio così. Il termine è stato recentemente riformulato dal movimento dei popoli indigeni in “reflorestar mentes”[riforestare le menti, ndr]…

UN: Secondo i dati, il 98,5% dei territori protetti, pari a circa il 13% del suolo brasiliano, si trova in Amazzonia, ma ci vivono solo la metà degli indigeni del Paese. L’altra metà vive al di fuori dell’area amazzonica, dove si trova solo l’1,5% delle terre riconosciute come aree indigene.

Gustavo: Ciò indica che nella vastità del territorio Yanomami è più facile la penetrazione dei garimpeiros [27.000 Yanomami vivono in relativo isolamento su 9,4 milioni di ettari dell’Amazzonia settentrionale, ndr]. Ma sono le terre non riconosciute il vero problema. È una lotta per la riappropriazione delle terre contro la lobby della bancada ruralista e quindi lo Stato brasiliano…a furia di proteste, occupazioni, violenze di privati o poliziesche, stupri, omicidi, cause giudiziarie, ecc.

UN: Quelli che i colonizzatori hanno chiamato indios, stanno sulla “terra de Pindorama” (nella lingua dei Tupi-Guaraní, la terra delle palme) da qualche millennio…Come Colombo in Nordamerica, i primi esploratori portoghesi che giunsero sulle coste dell’odierno Brasile nel 1500 pensavano di trovarsi nelle Indie orientali e chiamarono, quindi, gli abitanti indiani, indios. E poiché gli eurocentrici europei in missione per conto del loro Dio, amavano “battezzare” persone e luoghi snocciolando il calendario dei Santi, la terra di São Paulo o quella di Espirito Santo portano nomi legati alla religione cattolica. Il Brasile prende il nome portoghese dall’albero, il Pau Brasil, (la parola brasil potrebbe derivare dal colore rosso brace –brasa in portoghese- della resina del legno di questo albero). Inizialmente i coloni cominciarono a schiavizzare gli indigeni catturati per impiegarli nell’area agricola, principalmente nella produzione di canna da zucchero. Le miniere di oro e diamante saranno scoperte attorno al 1690, il che scatenerà l’aumento dell’importazione di schiavi africani per questo nuovo mercato assai redditizio. Dopo il declino dell’industria mineraria nella seconda metà del XVIII secolo, proliferarono, a seguito del forte aumento della popolazione residente, l’allevamento di bovini e la produzione di generi alimentari basati sul lavoro schiavile. Nel 1819 la popolazione brasiliana sfiorò i 3,6 milioni; almeno 1/3 di questi erano schiavi africani. Nel 1825 la percentuale di questi ultimi salì a circa il 56%. Lo sviluppo del sistema di piantagione della Coffea arabica a partire dagli anni 1830 attirò ulteriormente l’espansione del commercio delle navi negriere. I popoli indigeni, decimati, furono via via “rimpiazzati” dagli africani.

Gustavo/Linguiça: All’arrivo dei portoghesi nel 1500 c’erano circa 11 milioni dì indigeni suddivisi in più di 2000 tribù diverse. In un solo secolo dal primo contatto, oltre che dalle armi in acciaio europee, il 90% degli indigeni fu sterminato dalle malattie importate dai coloni, come influenza, morbillo e vaiolo. Il genocidio proseguì nel corso dei secoli con migliaia di indigeni e afrodiscendenti che morirono schiavi nelle piantagioni di gomma e canna da zucchero [oggi in Brasile vivono circa 300 tribù indigene per un totale di quasi 900.000 persone, pari allo 0,4% della popolazione, mentre il 56% dei brasiliani si dichiara afrodiscendente. Le tribù che vennero per prime a contatto coi coloni europei sono state i Guaraní e i Kaingang nel sud del Paese, mentre a nord furono i popoli Pataxo Hã Hã Hãe e i Tupinambá, un macro gruppo etnico prima dell’avvento dei portoghesi, ndr].

Molte tribù indigene che riuscirono a sopravvivere nei secoli furono costrette, per sostentarsi, a praticare il commercio con i coloni. Altri indigeni cercarono fortuna nelle aree urbane, vivendo, per lo più, nell’emarginazione. Ciò nonostante, gran parte delle tribù sono riuscite a mantenere la loro lingua e il loro stile di vita. Alcune invece s’isolarono completamente rifugiandosi nelle remote regioni dell’Amazzonia per evitare il contatto con gli esterni. Le aldeias indigenas [i villaggi indigeni, ndr], sono oggi delle realtà di resistenza al modello di “sviluppo” imposto dall’uomo bianco. Le politiche dello Stato brasiliano devono fare i conti con loro. Prima dell’avvento degli europei, le tribù si muovevano in piccoli gruppi su un territorio vasto, essenzialmente per cacciare e pescare ed erano stanziate in villaggi nei pressi dei quali praticavano l’agricoltura, non certo di OGM o con diserbanti, ma con tecniche apprese empiricamente come quella di far bruciare gli alberi della foresta e servirsi dei minerali nutritivi lasciati dagli incendi sul terreno per poi mettervi a coltura piantagioni varie. Praticavano l’arte della ceramica, tutta fatta a mano. Gli indigeni dell’Amazzonia non avevano animali domestici per il trasporto o il lavoro nei campi; l’agricoltura veniva fatta a mano. La manioca divenne l’alimentazione principale per molti gruppi. Gli indigeni avevano una grande conoscenza di tuberi, radici, foglie, semi e frutti, come il granturco o la manioca, appunto, dalla quale ricavavano per fermentazione la cauim, una bevanda alcolica. Il guaraná, l’energy drink…onnipresente in Brasile, viene da una tribù indigena [i Satere Mawe, ndr]; la bevevano molto prima che fosse commercializzata…al momento di partire per la caccia, perché dava resistenza e toglieva la fame [il piccolo seme della pianta di guaranà è l’alimento più ricco di caffeina al mondo, ndr].

UN: Invece la Coca Cola per produrre una lattina di solo 35 centilitri utilizza 200 litri d’acqua…A far lievitare l’impronta idrica (il volume complessivo di acqua dolce consumata per produrla e di quella necessaria per diluire gli inquinanti, tenendo conto di tutte le fasi della catena di produzione) è l’alto contenuto di zucchero, che incide notevolmente nella filiera produttiva (lo zucchero è per sua natura igroscopico, cattura, cioè, le molecole d’acqua presenti nell’atmosfera. Si pensi allo zucchero filato che, stando all’aria, dopo poco si liquefà). Il colosso di Atlanta che, su richiesta dei Guaranì, si era ripromesso di non comprare più la canna da zucchero dal gigante alimentare americano Bunge coltivata sulle loro terre, nel 2018 ha diversificato le sue strategie puntando anche sul caffè freddo in lattina…Una traiettoria già presa da Nestlé con Nespresso e prima ancora con Nescafé. Le strategie di marketing neocoloniali di queste Big Corps sono sempre le stesse, ineffabili: blandire la clientela, in questo caso brasiliana, con la pubblicità di una supercazzola di prodotto nuovo fiammante, ricavato per altro dai chicchi di caffè e dall’acqua del territorio. La pianta del caffè, originaria dell’Etiopia, venne esportata in Brasile nel 1727 e oggi il Paese ricopre il 75% della produzione mondiale. Le note aromatiche e la dolcezza del caffè napoletano provengono in buona parte dall’arabica del Brasile, considerata la più pregiata e di cui l’Italia è un grande importatore. In ogni caso, anche per fare una tazzina di caffè sono necessari 140 litri d’acqua, per far crescere, tostare e macinare 6-7 grammi di caffè, la dose contenuta in una tazzina.

Gustavo/Linguiça: Beh, l’acqua in Brasile non manca di certo…[il Brasile possiede il 12% delle risorse mondiali di acqua fresca, ndr]. Per quanto riguarda il caffè, i chicchi di caffè migliori vengono selezionati per l’estero, appunto. Io e Linguiça beviamo un caffè dimmerda…[a shitty coffee, le testuali parole di Gustavo, con una risata, diremmo, amara…ndr].

UN: Quali sono i metodi usati nelle lotte afroindigene e delle piccole comunità rurali per contrastare l’avanzata espropriativa nei loro territori e la sistematica violazione dei loro diritti? Johnny ha letto un testo ieri (sabato 8 aprile) in cui denunciava l’ennesimo sgombero violento effettuato dalla polizia.

Gustavo/Linguiça: Beh, i metodi sono quelli classici della protesta organizzata, del sostegno e della solidarietà, della denuncia dello Stato brasiliano e della sua borghesia per il genocidio degli indigeni e dei giovani poveri e neri nelle periferie per mezzo della sua polizia e del suo esercito, della rioccupazione delle terre come fa dal 1979 il Movimento Sem Terra. Sennò ci sono sempre i Brô Mc’s di Terra o guerra…[il primo gruppo rap indigeno in Brasile dell’etnia Guaranì dei Kaiowá, formatosi nel 2009; si è esibito nel 2022 all’Accampamento Terra Livre a Brasilia e al “Rock in Rio” nel 2022, considerato il più grande festival musicale del mondo. Costruirono all’epoca il primo studio musicale in un villaggio indigeno in Brasile, nella Terra Indígena Boróró, nel Mato Grosso do Sul, ndr]. Il testo che ha letto Johnny denuncia un’azione di polizia, avvenuta venerdì mattina [7 aprile, ndr] contro i contadini che occupano legittimamente le terre che coltivano a São João de Barra, un comune sulla costa nello Stato di Rio de Janeiro. Gli agenti si sono presentati con un mandato di “reintegro della proprietà privata”, hanno distrutto le coltivazioni, intimidito e picchiato le persone. L’industria estrattiva petrolifera sta cercando di installare in quella località un porto per l’attracco delle grandi petroliere e continua la sua espansione e devastazione lungo tutta la costa del Brasile [a maggio l’IBAMA, l’Istituto per l’Ambiente brasiliano, ha negato l’autorizzazione alle trivellazioni di Petrobras (controllata oramai per il 63,4% da azionisti privati) alla foce del Rio delle Amazzoni. Le esplorazioni delle acque ultraprofonde per arrivare al pré-sal -il petrolio leggero e di altissima qualità, considerato la nuova frontiera del business petrolifero- si estendono per 2.200 chilometri. Mentre la ministra dell’Ambiente, Marina Silva, già scontratasi con Lula nella sua precedente esperienza di governo dal 2003 al 2008, è decisa a difendere l’Amazzonia, Lula nicchia e anzi, in campagna elettorale, aveva parlato del pré-sal come del “passaporto per il futuro” del Paese…ndr].

In Brasile ci sono attualmente più di 200 organizzazioni indigene, oltre al movimento degli afrodiscendenti dei quilombo; ogni comunità rivendica la terra dei propri antenati in mano ai fazendeiros.

UN: Le tribù rimaste sono riuscite a mantenere, nonostante tutto, il loro stile di vita. Dove stanno il maggior numero di comunità indigene?

Gustavo/Linguiça: I Tupi-Guaraní erano e sono ancora il popolo più grande, e non stavano solo nell’odierno Brasile [oltre al Brasile meridionale, sono distribuiti in Paraguay, nel nordest dell’Argentina, in Uruguay e nelle zone sud-orientali della Bolivia, ndr]. In Amazzonia i popoli più numerosi sono i Tikuna [con 40.000 individui, la tribù più numerosa dell’Amazzonia, ndr] e gli Yanomami [circa 27.000, cfr. sopra, ndr]. Le altre tribù non arrivano a 1000 individui. In Amazzonia vivono poi sugli 80 gruppi che rifiutano il contatto con gli esterni. Altri gruppi composti da diverse centinaia di individui vivono in zone di confine nello Stato di Acre o in territori protetti come la Valle Javari, alla frontiera col Perù. Nel secolo scorso, a causa del boom della gomma e dell’espansione dell’agricoltura molte tribù vennero quasi completamente sterminate; i sopravvissuti hanno formato piccoli gruppi. Lo Stato di Acre è ricco di giacimenti aurei e soprattutto di caucciù. Molti gruppi sono in costante fuga dalla deforestazione che avanza e dagli allevamenti che invadono la loro terra [come il popolo Kawahiva, di cui restano poche decine di persone, ndr]. Le autorità hanno creato delle riserve territoriali per gli indigeni, come quella nella zona del fiume Xingu [la riserva dello Xingu, situata a nord dello Stato brasiliano del Mato Grosso, fu creata nel 1961, ndr]. Nel devastato Stato del Maranhão, i pochi ritagli di foresta integri rimasti sono nei territori dove vivono popoli indigeni come gli Awá. Grazie alla loro conoscenza di piante e animali sono fondamentali per la conservazione della biodiversità.

UN: Ricordiamo il film Mission che, per quanto fosse una mega produzione britannica, prendeva spunto da fatti realmente accaduti intorno al 1750 nelle terre Guaraní tra Brasile, Argentina e Paraguay, dove l’imposizione armata del dominio coloniale sulle terre indigene avvenne col beneplacito di Santa Madre Chiesa, colonizzatrice di anime…Anche nel campo della spiritualità, comunque, malgrado gli inevitabili casi di sincretismo, le tribù hanno mantenuto i loro rituali, pensiamo allo sciamanesimo.

Gustavo/Linguiça: È anche questo un aspetto della vita indigena che è strettamente legata al loro territorio. Non vogliamo certo cominciare a parlare degli aspetti trascendenti o delle varie credenze. Comunque, lo sciamano, che è ritenuto un guaritore, ha una straordinaria conoscenza delle proprietà di diverse piante. il famoso stato di trance lo raggiunge con o senza l’assunzione di sostanze allucinogene, al contrario di quello che si possa pensare, e queste pratiche e rituali non sono, in ogni caso, qualcosa di ludico. Certo, può poco contro la malaria, il morbillo, le influenze…o le altre malattie, come a suo tempo il vaiolo, portate nei territori dai colonizzatori [con l’aumento della pressione per lo sfruttamento delle loro terre, le tribù più isolate furono esposte alle malattie contro cui non avevano difese immunitarie, ndr].

UN: Se l’assunzione di sostanze allucinogene non è qualcosa di ludico per lo sciamano, da noi lo sballo è ludus allo stato puro, per tutti i gusti e ad ogni ora, oltre a essere un grande business. Tanto più che la nostra società è attraversata da una frenesia e da un’ansia sempre maggiori. C’è lo stress da lavoro e quello da disoccupazione; e poi abbiamo inventato la depressione e i tranquillanti sintetici per combatterla… Il risultato di questo stordimento continuo è una progressiva alienazione individuale dalla collettività. A proposito di alienazione, cosa ci potete dire sui tanti casi di suicidio tra gli indigeni, senza uno straccio di prospettiva futura?

Gustavo/Linguiça: I Guaraní hanno il più alto tasso di suicidi del Sudamerica. Nel corso degli ultimi 100 anni sono stati derubati della loro terra per far spazio agli allevamenti di bestiame e alle piantagioni di soia e canna da zucchero. Oggi molte comunità di Guaraní vivono ammassate in riserve sovraffollate, mentre altre sono accampate sotto teloni di plastica sui cigli delle strade. La situazione è particolarmente grave nel Mato Grosso do Sul, un tempo il loro vasto territorio [in Brasile sono rimasti circa 51.000 Guaraní, distribuiti in sette Stati diversi. I Guaraní brasiliani appartengono a tre gruppi, di cui quello dei Kaiowá, che significa “popolo della foresta”, è il più numeroso. Poi ci sono i Ñandeva e gli M’byá. Nelle foreste e pianure del Mato Grosso do Sul, un tempo i Guaraní occupavano circa 350.000 chilometri quadrati…ndr].   

UN: Il movimento dei povos indigenas cerca la federazione delle aldeias indigenas, di cui parlavate. La diffusione delle idee anarchiche a fine Ottocento in Brasile, con l’avvento dei lavoratori migranti europei, tra cui molti italiani, non fa che confermare quello che ci dicevate all’inizio e cioè, che anarchismo e movimento dei popoli nativi hanno più di un punto in comune…

Gustavo/Linguiça: Una delle istanze dei popoli indigeni è proprio quella di “aldear la politica”; partendo dai villaggi, dalle diverse comunità e collegandole tra di loro. L’azione politica e sociale indigena contempla la cura della collettività, intendendo per collettività i parentes [come gli indigeni si chiamano tra loro, includendo col termine ogni forma di vita della foresta, ndr]. Questo approccio è stato tramandato dalla saggezza ancestrale e implica una costante ricerca nell’organizzazione quotidiana dell’equilibrio con la natura. Questa è la “politica” indigena.

Nella quinta e ultima parte si parlerà di decolonialità e dei quilombo. Abbiamo poi chiesto a Gustavo e Linguiça del movimento anarchico in Brasile e delle prospettive future del Paese in relazione alle comunità afroindigene in lotta.

A cura di due compagni della redazione

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