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Decolonialidade. Dossier Brasile parte V – Intervista ai compagni della Federazione brasiliana.

Decolonialidade. Dossier Brasile parte V – Intervista ai compagni della Federazione brasiliana.

UN: Il concetto di decolonialità [a cui si è accennato nella prima parte dell’intervista, ndr] non solo verte sul reale affrancamento dalla presunta universalità della conoscenza occidentale ed eurocentrica, ma individua nella divisione internazionale del lavoro tra centro e periferia, nella gerarchizzazione etnico-razziale, di genere e sessuale tra individui, gruppi e popolazioni, originata dall’espansione coloniale, il permanere di queste forme di esclusione e di gerarchia ben oltre la fine del colonialismo classico e la formazione degli Stati-nazione. La prospettiva decoloniale ridefinisce dunque questo colonialismo sviluppato dalla modernità, che, già da tempo, è nella fase di transizione verso una colonialità globale. Sugli striscioni che avete portato a Massenzatico campeggiava infatti la parola decolonialità…

Gustavo: La “decolonialidade” passa attraverso le lotte per la terra dei popoli indigeni e dei quilombolas. Dagli anni ’70 l’indigenismo classico è stato sempre più sostituito da movimenti indigeni auto-organizzati con istanze di autonomia dal basso [l’indigenismo fu dapprima un influente programma culturale-politico originatosi in Messico all’inizio del XIX al XX secolo col fine dell’inclusione delle popolazioni indigene nella costruzione della nazione, non considerando a sufficienza le peculiarità autoctone, ndr]. Tutto ciò che è proprio ai popoli indigeni, le loro lingue, lo stile di vita, passa per la salvaguardia del territorio. Riappropriarsi delle terre equivale al primo passo per mettere in pratica la decolonialità. E ciò non può che avvenire dal basso [bottom up, dice in inglese Gustavo, ndr] attraverso il movimento di lotta delle comunità afroindigene, per scardinare la razzializzazione e il permanere delle varie forme di discriminazione dovute al genere, alla povertà, ecc. che se sommate formano la condizione definita dall’idea di intersezionalità [Intersectionality è un termine coniato dall’attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw che affonda le sue radici nel femminismo nero, in riferimento alla doppia discriminazione del sessismo e del razzismo. A questi fattori discriminanti se ne possono sommare altri come la classe o l’orientamento sessuale. Già Angela Davis pubblicò nel 1981 Donne, razza e classe, frutto di un saggio scritto in carcere nel 1971, ndr]

UN: Lula ha ottenuto un terzo mandato. La corruzione, già evidenziata dal terremoto economico-politico causato dall’inchiesta “lava jato” [di cui si è parlato nella parte III del Dossier Brasile, ndr] pare essere endemica al sistema partitico di potere. Ci potete descrivere le dinamiche particolari al sistema di potere brasiliano?

Gustavo/Linguiça: L’origine delle varie corruttele sono sempre le istituzioni stesse. Per accedervi bisogna vincere le elezioni. Le campagne elettorali sono molto costose e ci sono decine di partiti e partitini ai tre livelli: federale, statale e municipale. I grandi partiti non sono che delle reti di favoritismo clientelare basate sulla distribuzione di risorse pubbliche nei territori locali e devono pagare i vari partitini per formare le coalizioni. Buona parte della lotta politica ruota intorno al potere di nominare i vertici delle aziende di Stato che rappresentano dei veri e propri bacini di raccolta di tangenti milionarie usate per finanziare le campagne elettorali. Per vincere l’elezione presidenziale con Lula nel 2002 e governare il Paese fino al 2016, il PT ha semplicemente continuato la pratica della corruzione sistematica nella politica, dei compromessi con l’imprenditoria che conta [il primo vicepresidente di Lula, José Alencar del partito liberale, era uno dei maggiori industriali, mentre il governatore della Banca centrale era un economista conservatore-ortodosso, Henrique Meirelles, ndr]. Tutto ciò divenne evidente con lo scandalo dell’acquisto di voti “mensalão” del 2005, quando ai deputati del Congresso furono pagate ingenti somme dai bilanci delle aziende statali [il mensalão è un neologismo traducibile con “grandi pagamenti mensili“, ndr], per sostenere la legislazione del governo. Ma oltre a essere un sistema costoso era anche rischioso, a causa dei troppi partiti all’interno di una coalizione, dove nascono continue dispute sulla spartizione dei pagamenti che possono essere amplificate dai media e incorrere in eventuali indagini della magistratura, come poi accaduto con l’inchiesta lava jato di Sérgio Moro. Nel 2010, Dilma Rousseff era stata scelta come candidata per il PT alle presidenziali, perché gran parte della dirigenza del partito era stata incarcerata [tra di loro c’erano 25 personaggi in vista di politica e finanza, dal braccio destro di Lula, José Dirceu, al presidente del Banco do Brasil Henrique Pizzolato, che fuggì in Italia grazie a un passaporto tricolore, ma venne arrestato mesi dopo a Maranello, ndr]. Al processo mensalão, vennero condannati quasi tutti gli accusati [il “Supremo tribunal federal” emise a ottobre 2012 condanne per 24 imputati su 37 tra politici, imprenditori e banchieri, ndr]. La magistratura usò in modo spregiudicato la carcerazione preventiva, i patteggiamenti e la “delação premiada”[la confessione con premio, ndr], introdotta dal governo della Rousseff. Nel 2007-2008 arrivò la crisi globale dovuta alla bolla immobiliare che portò al crollo dei prezzi mondiali sia del petrolio che dei principali prodotti brasiliani di esportazione fino alla recessione del Paese a partire dal 2015. Il sistema è imploso. Quello clientelare dei partiti non è cambiato… Lula oggi appare più forte, dopo essere stato scagionato dalla Corte suprema e Sérgio Moro non c’è più. Continuerà nella sua politica ambivalente per puntare a giocare un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale col suo nuovo alleato, la Cina. Noi invece, continueremo a sostenere le lotte afroindigene combattendo lo Stato borghese brasiliano e le sue politiche di sfruttamento.

UN: Nella prima parte dell’intervista avevamo parlato della “bianchizzazione” operata dall’Impero del Brasile con il progressivo trasferimento di coloni nel corso del XIX secolo e il conseguente bisogno sempre maggiore di schiavi per il lavoro nelle piantagioni. Verso la fine del secolo, poco prima dell’abolizione della schiavitù, vennero reclutati contingenti sempre più numerosi di lavoratori migranti europei, tra cui molti italiani, più redditizi e avvezzi al lavoro di sfruttamento capitalistico [cfr. “Schiavitù” in Umanità Nova anno 103 numero 19 e l’intervista su Anarres del 14 aprile a Radio Blackout di Johnny che, a riguardo della manodopera importata dall’Europa, ha parlato del biennio 1884-86, ndr]. Il processo di bianchizzazione della società brasiliana divenne quindi capillare. In ogni caso, dall’Europa arrivarono assieme ai lavoratori anche le idee anarchiche…che ben presto abbracciarono le lotte degli sfruttati provenienti soprattutto dalle comunità afroindigene, dando magari qualche impulso organizzativo, visto che, come dicevate, l’anarchismo nasce in Europa come antidoto al capitalismo, esportato anche nei vostri territori. Come si è sviluppato il movimento anarchico più recentemente in Brasile? La vostra è una Federazione piuttosto giovane, no?

Gustavo: Il movimento anarchico in Brasile è cresciuto molto nei primi anni 2000. Era il periodo del debito col FMI e le politiche sociali erano insufficienti. Si è poi sviluppato ancora con il montare della protesta per le ripercussioni dovute alla crisi mondiale del 2008 e con le manifestazioni del 2013, causate, tra l’altro, dagli sprechi per i Mondiali. La Federazione brasiliana invece è piuttosto recente, nasce nel 2015.

Linguiça: Io, con la nostra federazione di Espirito Santo (Federaçao Anarquista Capixaba), sono entrato nell’IFA-Brasil l’anno scorso, il giorno che è morta la regina…

Gustavo [rivolto a Linguiça tra portoghese e inglese, ndr]: Sì, sì, ricordo che avevamo chattato quel giorno…Ti avevo scritto “The Queen is dead!” [era l’8 settembre 2022, ndr].

Comunque [prosegue Gustavo, ndr], la nostra Federazione [Iniciativa Federalista Anarquista – IFA Brasil, ndr] è ancora in crescita, non ha ancora una struttura consolidata come la vostra FAI. Ci coordiniamo attraverso i social, l’online e, almeno una volta l’anno, ci incontriamo. A settembre 2022 c’è stato il quinto Forum generale anarchico del Brasile [che funge da congresso ed ha ospitato la seconda CRIFA, riunendo comunque 21 gruppi, organizzazioni e movimenti locali, ndr] (1). Abbiamo anche noi una Commissione di corrispondenza. I diversi collettivi e le diverse federazioni sono autonomi e nell’incontro annuale mettono insieme i diversi progetti per trovare degli obiettivi comuni. Anche noi adottiamo ovviamente i processi decisionali libertari di condivisione. Siamo venuti in Italia anche per chiedere alle altre federazioni la solidarietà con le popolazioni indigene che vivono nel territorio attualmente dominato dallo Stato brasiliano, in particolare quelle con cui IFA Brasile mantiene attività costanti e che si trovano negli Stati di Bahia, San Paolo e Brasilia. Vogliamo collaborare con i popoli originari per la riappropriazione delle terre ancestrali e per trasmettere la loro cultura alle nuove generazioni. Come detto al Congresso IFA, abbiamo il progetto di costruire due scuole di formazione politica e agro-ecologica, la prima nel Quilombo Sapé do Norte [nella regione di Capixaba nello Stato di Espirito Santo, ndr] e la seconda nel villaggio Takua Ju Mirim del popolo Guarani M’bya a San Paolo. Ma per i contributi finanziari vogliamo discuterne all’interno di IFA Brasil, definendo prima i dettagli.

UN: Una curiosità: come si chiama lo strumento che ha portato e suonato Johnny a Massenzatico? Johnny viene dalla favela di São Paulo [ancora oggi uno Stato dove il 32,5% delle persone, 13 milioni di oriundi, ha origini italiane, figli dei figli, probabilmente, di quell’ondata di manodopera migrante di fine Ottocento, ndr], ma ci dicevate che è originario dello Stato di Bahia. Johnny, che appartiene al popolo indigeno Kiriri, a ben vedere, ha anche tratti afrodiscendenti [“Kiriri” in Tupi-Guaraní vuol dire “silenzioso”, “taciturno”. Si suppone che sia il nome dato dai Tupi della costa ai nativi dell’entroterra. Il popolo Kiriri, diffuso soprattutto nello Stato di Bahia, fornisce un modello di lotta per i popoli indigeni della regione nord-orientale. Ha una struttura politica e a fine anni ‘90 è riuscito a far rimuovere 1200 occupanti abusivi dalla terra indigena Kiriri, omologata nel 1990, ndr].

Gustavo: Lo strumento è il Berimbau capoeira di Bahia ed ha origini africane. Si è diffuso in Brasile durante il periodo coloniale [abbiamo poi scoperto che il nome deriva da Biriba, una pianta tropicale da cui si ricavano le verghe che costituiscono l’arco, lungo fino a 1,6 metri. Sulla verga viene tesa una corda di metallo che percossa produce vibrazioni melodiche amplificate da una zucca secca e cava che funge da cassa armonica, ndr]. Johnny proviene dalla favela Vila Dalva di Sâo Paulo, ma le sue origini sono a Bahia, dove ci sono parecchie comunità di quilombolas, i quilombo. È probabile che ci siano state delle commistioni nella sua famiglia. Ad ogni modo, proprio a Bahia, nella Baia di Todos-os-Santos, arrivavano le navi negriere che trasportavano schiavi dalle coste dell’Africa occidentale destinati a lavorare nelle miniere o nelle piantagioni. Sempre da questa baia partivano dal XVII secolo verso l’Europa lo zucchero, il caffè e il tabacco [considerati allora prodotti pregiati, ndr]. Oggi queste comunità di afrodiscendenti rivendicano un riconoscimento collettivo e reclamano le terre dove hanno lavorato e vissuto per secoli i loro antenati.

UN: A tale proposito abbiamo letto del quilombo di Engenho da Cruz, che si trova anch’esso nello Stato di Bahia al confine con quello di Espirito Santo a nord-est del Brasile, nella regione fertilissima del Recôncavo Baiano, bagnata dal fiume Paraguaçu che comprende non solo la costa che si affaccia sulla Baia di Todos-os-Santos, ma anche la regione metropolitana di Salvador, la capitale dello Stato; anche qui, i toponimi furono inferti dai colonizzatori cattolici. Qui, nel 2018, sono riusciti, attraverso un meticoloso lavoro di ricerca, a redigere un rapporto che ricostruisce l’origine e lo sviluppo di questa comunità antica e in attesa di riconoscimento per vedere certificata la propria storia e soprattutto l’accesso alla terra che il quilombo rivendica.

Gustavo: Le comunità quilombolas sono diffuse in tutto il Brasile, con una forte concentrazione proprio negli stati del nordest, in particolare a Bahia. Uno dei quilombo più grandi, con 2000 abitanti, è quello di São Francisco do Paraguaçu, [dal nome del fiume Paraguaçu che attraversa per 600 km lo Stato, ndr] . È un insediamento cresciuto intorno a un convento francescano costruito dagli schiavi nella seconda metà del seicento [il convento de Santo Antônio, ndr]. Ci abitano i discendenti di quelli che riuscirono a rifugiarsi nella foresta circostante e tornarono dopo l’abolizione della schiavitù del 1888. È interessante quello che è successo qualche anno fa nella guerra coi latifondisti. Appoggiati da trasmissioni televisive, questi ultimi sono riusciti a spaccare la comunità, tra chi appoggiava le rivendicazioni quilombolas e chi voleva mantenere lo status quo, ritenendo che il processo di riconoscimento potesse mettere a rischio le poche forme di sostentamento della comunità. São Francisco do Paraguaçu rappresenta un paradigma della ricattabilità delle comunità esposte ai fazendeiros.

In passato i quilombolas erano ritenuti dei fuorilegge, dei reietti e i quilombo venivano attaccati e distrutti in continuazione. Ma non sono mancati, tra violenza e repressione, esempi di resistenza leggendaria come quello di Palmares [cfr. la storia di Zumbi in “Schiavitù”, UN anno 103, numero 19, ndr] dove, per più di mezzo secolo, furono sventati gli attacchi portoghesi e olandesi fino a riunire, all’apice della lotta, quindicimila abitanti. Non di rado, come nel caso delle terre indigene, le lotte per la terra dei quilombolas lasciano morti per strada. Appena un quilombo ottiene il riconoscimento, i proprietari terrieri denunciano alle autorità statali l’occupazione abusiva di quelle che considerano loro proprietà…La polizia interviene, distrugge le coltivazioni, sequestra gli animali e minaccia gli occupanti. Se ciò non dovesse bastare, i fazendeiros ingaggiano dei sicari [nel 2017, su quattordici quilombola uccisi per ragioni legate ai conflitti agrari, dieci erano dello Stato di Bahia, ndr].

La costituzione brasiliana del 1988 stabilisce che le comunità quilombola, come quelle indigene, hanno diritto a ottenere le loro terre ancestrali; ma prima del decreto del 2003 di Lula, che definiva quilombo qualsiasi gruppo avesse una discendenza africana connessa a una storia di resistenza o di oppressione, le comunità non erano praticamente riconosciute [secondo le stime della Coordenação nacional de articulação das comunidades negras rurais quilombolas (Conaq), si è passati dai 29 quilombo riconosciuti prima del 2003 ai 2847 fino all’elezione di Bolsonaro, ndr]. Dopo aver ottenuto il riconoscimento, le comunità devono rivolgere le loro richieste all’Istituto nacional de colonização e reforma agrária [l’Incra è l’ente federale che si occupa della concessione delle terre, ndr]. E tra verifiche e iter procedurali che possono durare anche decenni – già durante i primi due mandati di Lula e quello di Dilma Rousseff la concessione dei certificati avveniva con il contagocce – il cammino e la lotta sono ancora lunghi!

UN: Obrigado camaradas…

Gustavo: Prego! [detto in italiano, ndr]

Poco dopo il nostro incontro coi compagni brasiliani, da lunedì 24 a venerdì 28 aprile, si è svolto sull’altopiano centrale di Brasilia l’annuale incontro delle popolazioni indigene, l’ “Acampamento Terra Livre”, la più grande mobilitazione del movimento indigeno per rivendicare i propri diritti. La prima edizione risale al 19 aprile del 2004, e, per questo motivo, il 19 aprile fu dichiarato il “dia dos povos indigenas” (giorno dei popoli indigeni). Il raduno è ripreso nel 2022 dopo 2 anni in cui non ha avuto luogo per via della pandemia. Col terzo governo Lula è arrivata l’istituzione del Ministero dei Popoli Indigeni presieduto dall’attivista indigena Sônia Guajajara, presente a Brasilia. Con il processo del “marco temporal” in corso, si è resa necessaria una mobilitazione in massa delle tribù indigene. Gli ultimi sviluppi al Congresso, di cui abbiamo parlato la volta scorsa, non lasciano ben sperare; il 30 maggio la Camera del Congresso brasiliano ha approvato il cosiddetto “marco temporal”, la proposta di legge volta a eliminare i diritti delle popolazioni native sui territori ancestrali. Ora la legge passa al Senato (dove ci sono due attiviste indigene, la stessa ministra Sônia Guajajara e Célia Xakriabá) e poi dovrà essere firmata dal presidente Lula, che si è sempre dichiarato contrario. Lo Stato brasiliano, con l’ex sindacalista operaio di nuovo al timone dal 1 gennaio 2023, continua a rincorrere il modello di crescita economica capitalista del Nord globale, cercando con sempre maggiore insistenza l’alleanza politica e commerciale con la Cina di Xi Jinping; ad aprile il presidente è volato a Shanghai per l’insediamento di Dilma Rousseff alla guida della Nuova banca di sviluppo dei BRICS. Eppure, una svolta determinate per la preservazione della foresta amazzonica, dove si trovano la stragrande maggioranza dei territori indigeni protetti, potrebbe essere rappresentata proprio dai cambiamenti climatici… L’Amazzonia, infatti, oltre a immagazzinare enormi quantità di carbonio, raffredda la superficie e interferisce con la circolazione globale, atmosferica e oceanica, contribuendo ad abbassare la temperatura del pianeta. Attraverso il neo dicastero preposto, ai popoli indigeni verranno fatte concessioni, regolamentate alcune terre, messo un freno all’avanzata dei garimpeiros – impedendone le vie d’accesso alla foresta lungo il corso dei fiumi – ma che ne sarà della corruttela che già spazzò via mezzo PT, degli intrecci obbligati col mondo imprenditoriale dell’agrobusiness in contrasto coi diritti degli afroindigeni, della sempre crescente ricerca di giacimenti da parte di Petrobras o delle dighe idroelettriche? Dove la deforestazione dei taglialegna non è arrivata, l’ambiente è stato conservato e i meriti sono ascrivibili anche e soprattutto al modo di vita indigeno. Nel frattempo il capitalismo dei Paesi del nord del mondo, pittatosi di verde, sta già dando la caccia alle materie prime dette critiche e il suo monopolio di sfruttamento delle risorse a livello globale appare in pericolo. Le materie prime critiche sono quelle legate alla transizione ecologica. La Commissione Ue nel 2023 ne ha identificate 34. La loro criticità per l’industria europea è dovuta al rischio di fornitura per via della loro concentrazione in pochi Paesi come la Cina… che fornisce all’Unione Europea circa il 98% delle terre rare; la Turchia il 98% del borato, il Sudafrica il 71% del platino e una percentuale ancora più alta per i materiali del gruppo del platino: iridio, rodio, rutenio. Il litio è fornito al 78% dal Cile, mentre solo alcuni elementi chimici come l’afnio e lo stronzio dipendono da singole aziende europee (2). A questo modello a trazione Nord globale ancora dominante, come al suo emulo antagonista in ascesa, rappresentato dai BRICS di Lula, si contrappone la resistenza anticapitalista e la costruzione di una società altra di liberi e uguali che, invece, parte ancora e sempre dal basso, in questo caso proprio dalla terra…

Due compagni della redazione

(1) https://umanitanova.org/forum-generale-anarchico-del-brasile-radici-anarchiche-esperienze-e-lotte-popolari/

(2) https://economiacircolare.com/materie-prime-critiche-strategiche-terre-rare/

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