Pubblichiamo di seguito uno degli interventi tenuti al Convegno Antimilitarista di Milano dello scorso giugno. Tutti gli interventi sono stati raccolti in un testo recentemente pubblicato da Zero in Condotta.
Care compagne e cari compagni, in premessa a quanto andrò a breve ad esporre nei 20 minuti a disposizione, mi sia concesso fare una chiarificazione epistemologica: chi sostiene che il linguaggio è modalità espressiva caratterizzata in modo neutro, mente sapendo di mentire.
La comunicazione attraverso il linguaggio, prescindendo dalla forma che si dà, che sia verbale, scritta, visiva, iconica, è sempre orientata, è partigiana.
Il linguaggio non rappresenta la realtà del mondo, nel mondo; il linguaggio costruisce la realtà.
Il linguaggio è quindi scelta, scelta funzionale al vivere associato e di questo ne determina assetti, gerarchie, modalità e relazionali sociali.
Non a caso, a titolo esemplificativo, una società gerarchica dominata da paradigmi etero normativi e patriarcali come quella italiana, ha, nella sua lingua ad uso comune, la declinazione plurale sempre al maschile. La lingua stabilisce l’ordine discorsivo.
Premesso doverosamente ciò, sottolineerei ora, nell’economia del ragionamento, un elemento strutturale della società italiana: la società italiana è anagraficamente anziana.
La narrazione digitale mal si applica quindi al cosiddetto Bel Paese e questo diviene elemento dirimente per comprendere come i dispositivi gerarchici di potere agiscono non per orientare, ma proprio per creare un immaginario collettivo funzionale all’ordine costituito.
La conoscenza limitata degli strumenti multimediali e digitali, l’altrettanto poco diffusa presenza della televisione specializzata e via cavo, fa sì che ancora la presenza preponderante, nelle case del popolo italiano, sia la televisione cosiddetta generalista dove, a poche e insignificanti presenze di canali locali, la parte del leone la faccia ancora la programmazione televisiva dei canali di Stato RAI e privati Mediaset.
In particolare ora vorrei soffermarmi su due tipologie di programmi televisivi che riscontrano il maggior numero di ascolti: fiction e talent (mi scuso per l’uso anglosassone dei due termini).
Per quel che concerne le fiction, soprattutto a partire dai primi anni 2000, si è assistito ad una sorta di spartizione bipartisan tra Rai e Mediaset per quel che concerne serie televisive a caratterizzazione militare. Se sui canali Rai si sono succedute programmazioni patrocinate dal Ministero degli Interni con titoli quali “La squadra”, “Commissario Montalbano”, “L’ispettore Coliandro” e altre simili, le reti Mediaset hanno sposato il Ministero della Difesa ed in particolare l’Arma dei Carabinieri. Nella fattispecie, pressoché in contemporanea per diverse stagioni televisive, sono andate in onda due serie complementari: “R.I.S.” e “Carabinieri”.
Se la prima rispecchiava i canoni classici del telefilm d’azione all’americana con l’esaltazione della capacità operativa delle Forze e Nuclei Speciali dell’Arma nel risolvere casi spesso ispirati a reali fatti di cronaca, più interessante invece l’analisi della seconda serie televisiva presa in esame.
“Carabinieri” ha una narrazione che ricalca modelli paragonabili a “Pane, amore e fantasia”. Qui l’elemento “azione” è ridotto ai minimi termini. Se ne esalta invece la funzione “paterna” dell’Arma a difesa di ogni piccola comunità di provincia. I personaggi, e gli attori scelti per interpretarli, non hanno nulla dell’eroe tutto muscoli e azione. Il buonismo regna sovrano, la stazione/caserma assume più i connotati di una portineria ove tutto di tutti si sa, una sorta di confessionale con stellette e mostrine al posto di colletti bianchi e crocefissi.
Questa fiction, apparentemente quindi innocua e incapace di incidere nell’immaginario collettivo perché raffigurante una realtà trasfigurata da italietta da anni ’50, in realtà è servita addirittura come grande spot demoscopico e sondaggio di gradimento. E’ servito per sondare quanto sarebbe stata gradita la presenza femminile all’interno dell’Arma dei Carabinieri prima del suo reale inserimento. Ovviamente i personaggi inseriti a tale scopo, e le attrici chiamate ad interpretarli sono state scelte, siamo nei primi anni 2000, più che nella accademie di recitazione dai calendari allegati a riviste quali “Max”, “Panorama”, ecc.
Manuela Arcuri e Alessia Marcuzzi, di cui è ardua impresa ricordare doti e capacità recitative, furono quindi impiegate per questa grande operazione di immagine.
Ora non sono in grado di poter asserire che la presenza femminile all’interno dell’Arma dei Carabinieri sia attribuibile solo a questa operazione televisiva ma sicuramente è servita a creare un immaginario collettivo favorevole. È comunque importante ribadire quanto ciò si sia espresso anche attraverso un registro comunicativo improntato al più becero maschilismo sessista con figure iconiche da cabina da camionista e non certo per altre connotazioni positive di genere.
Se invece ci spostiamo ad analizzare la programmazione televisiva sui canali di Stato, la RAI, vorrei soffermarmi su una serie in particolare: “Ad un passo dal cielo”.
Questa serie è arrivata alla sua prossima quinta stagione ed è utile analizzarla per comprendere come talune operazioni di diretta emanazione statale, necessitino sempre e comunque di un immaginario collettivo favorevole, o quanto meno addomesticato, preparato all’evento.
Nello specifico si tratta dell’assimilazione del Corpo Forestale dello Stato all’interno dell’Arma dei Carabinieri e quindi sotto dipendenza del Ministero della Difesa.
Nelle prime tre stagioni, l’interprete principale è un comandante forestale che vive e opera in vallate dolomitiche.
L’ambientazione bucolica, oltre che dalle bellezze del territorio alpino dolomitico, è data dalla scelta dell’attore principale: il nazional-popolare Terence Hill.
La caratterizzazione del personaggio è data dall’essere un ex alpinista convertitosi a Guardia Forestale in conseguenza di un incidente tragico di scalata in cui perisce l’amata moglie e di cui preserva un intimo ricordo.
Alter ego della guardia forestale è un commissario di Polizia e il suo attendente raffigurati quasi come una sorta di Gianni e Pinotto alpini.
Ogni caso giudiziario quindi è sempre risolto dal nostro “eroe” non attraverso spettacolari azioni di stampo militare quanto più da doti e capacità umane quali intuito, conoscenza del territorio, perseveranza, senso del sacrificio e amore per la collettività ecc. Un eroe quasi romantico rappresentato da primi piani agli occhi azzurri intenso di Terence Hill.
Ma a partire dalla quarta stagione, guarda caso con il passaggio reale sotto diretto controllo del Ministero della Difesa, l’attore principale viene sostituito.
Terence Hill viene mandato in Nepal al servizio di una scuola per bambini in alta quota e a lui subentra l’attore Daniele Liotti ad interpretare un personaggio agli antipodi del suo predecessore.
Il nuovo personaggio è un reduce dai corpi speciali tutto muscoli e azione e tormentato dall’uccisione accidentale del figlio con un suo colpo di pistola.
Se nelle stagioni antecedenti i casi giudiziari erano risolti senza colpo ferire, ora vi è gran mostra di armi in pugno, interventi di elicotteri anche in quota con sparatorie, uccisioni e ferimenti.
Un filone narrativo atto a rappresentare la nuova funzione dell’ex Corpo Forestale dello Stato che da difensore di boschi e animali selvatici ora è chiamato ad operazioni di tradizionale polizia territoriale con strumenti, mezzi e soprattutto metodi consolidati a basse quote d’altitudine.
Chiudendo quindi con la disamina delle fiction televisive, ora mi soffermerei su un particolare filone dei cosiddetti talent: quelli relativi alla cucina.
Bene, a noi tutti è ben nota come la cultura del cibo, alla sua modalità di preparazione, distribuzione e consumo rappresenti una delle migliori pagine solidali del mondo delle classi subalterne, proletarie, operaie e contadine.
Tanto che, ancora oggi, in modo autogestito e solidale si svolgono festival, incontri quali, a titolo esemplificativo, “Le cucine del popolo” in provincia di Reggio Emilia, ai vari incontri della rete Genuino Clandestino, ecc.
Se ora invece ci dovessimo trasferire all’interno di una di queste cucine pluristellate da talent televisivo, avremmo la reale percezione di trovarci all’interno di un qualsiasi anonimo dispositivo autoritario, gerarchico e militare. Questo lo potremmo proprio evincere dal tipo di linguaggio, dal codice comunicativo adottato.
La competizione è massima, nessuna solidarietà e compartecipazione tra i presenti. La cucina viene chiamata campo di battaglia, pentole e mattarelli diventano armi, abiti da lavoro diventano divise da mostrare in rivista al comandante in capo (lo chef pentastellato).
Non è ammesso nessun dubbio, interrogativo, tentennamento… in cucina si risponde solo “signorsì” e si obbedisce agli ordini.
Ogni puntata è un esercizio di umiliazione subita per i partecipanti e nulla è meno paragonabile alle più drammatiche e rappresentative scene di umiliazione autoritaria, gerarchica e militare dei film di Stanley Kubrick.
Una narrazione quindi consona alla costruzione di un immaginario collettivo supino a questo tipo di logiche esportabili a qualsiasi altro ambito lavorativo e non solo.
Ma se dai digitali televisivi ci spostiamo a ben più tangibili strade delle nostre metropoli potremmo osservare, se osservator* attent*, ad altre trasformazioni iconografiche. Mi riferisco in particolare a ruoli lavorativi che abbiano necessità di uniformi/divise e come queste siano andate nel tempo sempre più ad assomigliarsi a indumenti militari.
A metà anni 80 svolgevo volontariato all’interno di una Croce di pronto soccorso. L’unico capo d’abbigliamento che mi veniva fornito era un camice medico che di solito aveva il colore della denominazione della Croce. Nelle gelide domeniche invernali ci si copriva con cappelli di lana, proprie giacche a vento, ecc.
Bene, ora il personale medico e paramedico di Pronto Soccorso ha un abbigliamento uniforme e obbligatorio che più ricorda un paracadutista pronto al lancio: stivali anfibi con scuola carrarmato, pantaloni con tasconi laterali sorretti da cinturone militare e giacca con tanto di mostrine e nome identificativo e soprattutto copricapo basco militare con spesso fregio metallico.
A questo tipo di abbigliamento paramilitare non può sfuggirvi anche una postura che in taluni casi ricorda più un sergente maggiore dei marines che non qualcuno che oltre che a soccorrerci dovrebbe anche rassicurarci.
Identica trasformazione si è avuta anche per il personale del controllo viaggiante soprattutto per quanto riguarda il servizio all’interno delle metropolitane.
Anche qui, alle simpatiche giacchette grigio topo e cappello stile ferroviere, si è andato a sostituire un completo blu scuro con gli stessi orpelli descritti per il personale d’ambulanza.
Una coincidenza? Assolutamente no! Lo Stato ha sempre più la necessità di militarizzare ogni aspetto della nostra vita e per farlo si adopera affinché si venga a costruire un immaginario collettivo che faccia propria l’equazione gerarchia=efficienza.
E così assistiamo ad una progressiva militarizzazione e gerarchizzazione di tanti ambiti di vita civile e collettiva che tutto hanno bisogno, per essere realmente efficaci, che di tale pseudo cultura efficientista.
Tale “efficienza” l’abbiamo purtroppo vista operare nelle innumerevoli disgrazie e disastri idrogeologici (alluvioni, terremoti, incendi) ove solo la tempestiva solidarietà spontanea, mutualistica e autogestita è stata di reale supporto alle popolazioni colpite.
Questa narrazione tossica va svelata, denunciata, destrutturata perché mai come oggi è necessario ribadire, attualizzandola, che dove comincia il soldato finisce d’esistere l’essere umano libero nel suo orientamento di genere.
Paolo Masala