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Antimafia come dispositivo di controllo sociale.

Antimafia come dispositivo di controllo sociale.

Se tutto è mafia, niente è mafia. E, di conseguenza, se tutto è antimafia, niente è antimafia.
Soprattutto quando, in modo molto brutale, la mafia viene assimilata con l’illegalità tout-court, e l’antimafia diventa una stanca e stantia retorica istituzionale e interclassista, appiattita, conseguentemente, sul concetto di legalità tout-court. Mandando in soffitta tomi di analisi economica e sociale sulla questione meridionale, sulla marginalità sociale, sul rapporto tra latifondo e sistemi di controllo violento ed organizzato della forza lavoro bracciantile, e il concetto cardine di subcultura.
I novelli “professionisti dell’antimafia” sono magistrati, uomini delle forze dell’ordine, politici, giornalisti, intellettuali ed imprenditori che con un’inchiesta, un articolo o un regolamento antimafia si sono preparati scalate ai vertici delle piramidi dei loro rispettivi ambiti.
I Grasso, i De Gennaro, i Manganelli, i Caselli, si sono creati scalinate d’oro e aure di inattaccabilità e ingiudicabilità(note sono le scomposte reazioni del Caselli, ai limiti dell’isteria, quando qualcuno contesta il ruolo avuto come Grande Inquisitore contro i No Tav).
Adesso questo castello comincia a scricchiolare: già due noti imprenditori antimafia sono finiti nel mirino delle procure. Tra presunte frequentazioni con uomini di Cosa Nostra per alcuni, e l’ex-presidente della Camera di Commercio di Palermo Helg, che aveva ottenuto quella carica per la sua passione per la retorica anti-racket, beccato con le mani della marmellata mente intascava una tangente di migliaia di euro per il rinnovo della concessione di ristorazione all’interno dell’aeroporto di Palermo. Nella stampa siciliana e nazionale qualche flebile voce comincia a chiedersi quanto dietro la retorica antimafia ci sia realmente di sostanziale.
Ed inoltre, cominciano a circolare i mal di pancia per il recupero legalitario e borghese di Peppino Impastato, il militante della sinistra rivoluzionaria ucciso a Cinisi il 9 maggio 1978 su ordine del boss Gaetano Badalamenti.
I professionisti dell’antimafia dividono nettamente la Sicilia e il mondo tutto in buoni e cattivi. Di qua il Bene, lo Stato, le Istituzioni, di là tutto Male. Ideologia che nemmeno, alla fine, si potrebbe tacciare di interclassismo. E’, infatti, profondamente classista. Il fatto che nasci in quartieri-ghetto, senza futuro, e immerso in una subcultura che è comunque razzista, machista e reazionaria, non sembra da prendere in considerazione. Basta far passare per antimafia non buttare la carta per terra, quando intere aree della Sicilia(o della Calabria, della Campania, o i quartieri dell’emigrazione interna del resto d’Italia) sono abbandonate a loro stesse prive dei servizi fondamentali. Immolati per la legalità oppure muori, che l’arrivismo o le scorciatoie legali per ottenere qualcosa sono roba da ricchi.
Un’ideologia mortifera ed ipocrita diffusa capillarmente attraverso i mezzi di comunicazione di massa e il sistema scolastico, che ha creato generazioni di questurini benpensanti e succubi.
Fai sembrare tutto il problema semplicemente un problema di poco senso dello Stato, invia migliaia di soldati in assetto di guerra da far sfilare davanti alle telecamere.
E poi, più vivrai in provincia, più sarai condannato all’ambiguità. Nei paesi dove tutti si conoscono addirittura sarai stato compagno di scuola di qualcuno che finisce dentro per reati di varia natura, ed il tuo pedigree antimafia non sarai mai bianco al 100 %.
Capiamoci, le organizzazioni criminali sono in tutto e per tutto funzionali al controllo sociale, tanto quanto le organizzazioni religiose. E nella storia della Sicilia contemporanea ci sono eventi che segnano un prima ed un dopo: il periodo che va dallo sbarco angloamericano del 10 luglio 1943 alle  prime elezioni regionali del 1947, seguite a ruote da Portella della Ginestra e dalle altre scorrerie squadriste della banda Giuliano al soldo del blocco di potere agrario, e la stagione delle stragi del 1992-1993. In mezzo, Cosa Nostra come bacino di consensi elettorali e denari per speculazioni edilizie e non, e, ancor più importante, come mezzo di controllo sociale in funzione preminentemente anticomunista. Non è un caso che la mafia come problema cominci debolmente a essere considerata dagli apparati statali solo all’alba degli anni ’80, sebbene quel misto di omertà e silenzi fosse ormai parte integrante del modo di vivere dei siciliani da secoli.
Il crollo dell’Unione Sovietica rende totalmente inutile un blocco di potere anticomunista in Italia, ed essendo la mafia figlia di un mondo economico e sociale sostanzialmente feudale mal si accorderebbe con lo sviluppo capitalistico.
E’ lì che si scatena una guerra tra bande all’interno del dominio, in cui cadono consapevoli o inconsapevoli molti degli attori in gioco di quegli anni, con doppi e tripli giochi(la cosiddetta Trattativa) tra le varie anime politiche, poliziesche, militari e dell’intelligence dell’apparato, con la popolazione presa in mezzo tra due fuochi.
Bombe, stragi ed omicidi mirati degni della peggior guerra, seguiti ad un sussulto della popolazione contro tutto e tutti.
Perchè si arrivasse ad un nuovo equilibrio, ad un accordo soddisfacente, serviva mostrare i muscoli per silenziare la rivolta anche indistinta. Blindatura che si chiamò “Operazione Vespri Siciliani”, il primo utilizzo delle FFAA italiane in operazioni di ordine pubblico interno. Sorveglianza delle infrastrutture e degli obiettivi sensibili. Ma , nei quartieri popolari e nelle aree più interne e depresse della Sicilia, una vera e propria occupazione militare con tanto di rastrellamenti e schedature di massa. E(casualmente?) nella Sicilia orientale nel frattempo il potenziamento del dispositivo bellico USA in vista della Pax Americana.
Forza Italia e le elezioni del ’94 forse segnarono il ritrovato equilibrio e la fine delle stragi, in Sicilia e nel continente.
E a far capire quale sia adesso il problema della Sicilia(o dell’Italia?) sono i fatti: dopo gli arresti di Riina e Provenzano, Cosa Nostra non ha più riunito la commissione, i commercianti che denunciano le estorsioni sono in aumento. La ‘Ndrangheta ha messo quasi totalmente le mani sul mercato della droga e punta a prendere il posto di Cosa Nostra, in quanto a capacità economica. Le emergenze e le grandi opere, con la loro legislazione eccezionale, sono un ottimo mezzo di pulitura di denaro, e i tentacoli delle ‘ndrine si possono trovare nell’Alta Velocità come nella politica “padana”. Questo  vuol dire che tutto ciò che sia di interesse strategico per lo stato, siano esse infrastrutture, grandi eventi, o pezzi del dispositivo bellico atlantico(vedi MUOS), possano essere con grosse presenze al proprio interno di aziende quanto meno dubbie. Con la subcultura della delega e dell’elemosina per soddisfare i propri bisogni ancora ben presente dove essi mancano. E non sarà certo “Libera” con il suo misto di perbenismo cattolico e legalitarista interclassista e di cooperativismo a risolvere il problema. Non è fustigando le forme di illegalità diffusa mischiate alle resistenze sociali diffuse più svariate che si risolve il problema. Semmai avremo la mafia 3.0, quella dei Buzzi e dei Carminati, che ha dismesso ormai pure i colletti bianchi per indossare gli ormai sbiaditi e rosa pallidi golfini di Legacoop. E, specularmente, controllo diffuso e militarizzazione urbana. La vera soluzione invece attirerà gli strepiti degli stessi soloni della legalità. Riprendersi le fonti idriche difendendosi dalla mafia dell’acqua più o meno legalizzata; occupare le case appropriandosi di un bisogno al di fuori delle logiche di consenso politico-mafiose; scardinare alla base il machismo e l’omofobia al di là del sessismo diffuso dall’alto alla base della piramide sociale e dell’ipocrisia delle gerarchie ecclesiastiche, che si ammutoliscono di colpo su certi temi. E, soprattutto, colpire al cuore lo sfruttamento che passa dai CIE al reato di clandestinità, che genera il nuovo caporalato di cui sono vittima i migranti, schiavizzati a Rosarno come a Casal di Principe, a Vittoria come nella pianura pontina. O, nella stesso contesto, il business dell’accoglienza in cui le stesse diocesi sono coinvolte. O il dispositivo bellico USA che si serve della mafia come delle “elemosina” come calmante sociale, da Comiso a Niscemi
Di professionisti dell’emergenza che agitano spauracchi perché l’emergenza sia eterna così da tenere eternamente in scacco un’intera isola, non sappiamo che farcene.
Elimo Ribelle

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