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Il momento dell’accumulazione

Il momento dell’accumulazione

L’impatto della pandemia globale dovuta alla diffusione del coronavirus avrà conseguenze di lunga durata e, con molte possibilità, vedrà un’accelerazione delle dinamiche di ristrutturazione del capitalismo che sono già in corso. L’improvvisa imposizione del telelavoro e dello smartworking, sulla cui differenza torneremo più avanti, scombina le carte in tavola a molte imprese. Al contempo pone pesanti domande sul futuro della didattica di ogni ordine e grado. Emerge con forza il tema delle infrastrutture digitali, della loro progettazione e della loro gestione. Colossi del capitalismo della piattaforme, Google in primis, hanno saputo cogliere la palla al balzo proponendo i loro servizi a prezzi scontati o scontati sia al privato che al settore pubblico. I loro uffici stampa presentano questa decisione come frutto della “responsabilità sociale dell’azienda”. Non è così: è il coerente sviluppo della logica delle piattaforme e la ferrea volontà di costruire oligopoli, se non monopoli.

Multinazionali come Google o Amazon hanno spesso dimostrato di essere disposte a lavorare in perdita offrendo servizi a prezzi stracciati mettendo fuori la concorrenza e stabilendo posizioni di tipo oligopolistico. Riescono a farlo perché hanno le spalle grosse: liquidità, integrazione verticale e orizzontale, strategie di medio e lungo periodo. L’esatto opposto della piccola e media impresa.

Amazon è conosciuto come colosso dell’e-commerce ma non è quello il suo core-business: Amazon fornisce piattaforme di gestione ed elaborazione dati mediante i suoi servizi di cloud computing, AWS. La vendita al dettaglio è un’attività che permette di drenare, a propria volta, dati da mettere a valore fornendo un servizio a bassa marginalità che l’azienda si è potuta permettere comprimendo al massimo il costo del lavoro, sia tramite un’abile – e criminale – sistema di contratti esternalizzati per la catena logistica che tramite l’implementazione di sempre più sofisticati algoritmi di gestione del flusso di lavoro che hanno permesso di eliminare o comprimere al massimo i costi di mantenimento dei bassi e medi quadri manageriali.

Lo stesso addestramento degli algoritmi di gestione della merce fisica per il retail è avvenuto tramite il ricorso massivo a un modello ad alta intensità di lavoro, una vera e propria catena di montaggio dei dati, che si avvaleva del lavoro di migliaia di “turchi meccanici”, come vengono chiamati nel gergo amazoniano, riprendendo il nome del vecchio automa giocatore di scacchi che suscitava meraviglie nelle corti europee del diciottesimo secolo ma che era comandato da un maestro di scacchi nascosto al suo interno. Questi turchi meccanici del ventunesimo secolo sono, per altro, pagati tramite buoni spendibili solamente in acquisti su Amazon, generando un ecosistema totalmente chiuso.

Gli utili sono stati investiti nella creazione di un servizio come AWS il quale, a sua volta, ha sfruttato i bassi prezzi di accesso al servizio rispetto alla concorrenza, IBM, la stessa Google e Microsoft, nel mercato del cloud computing, per ricavarsi una posizione di preminenza in questo mercato. Al momento Amazon domina il settore di retail per le vendite via web e il settore del cloud computing rivolto ad attori aziendali e pubblici.

Amazon ha visto schizzare alle stelle il suo settore di vendita al dettaglio negli ultimi due mesi data l’impossibilità di recarsi in negozi di prossimità. Durante il lockdown gli elettrodomestici hanno continuato a rompersi, anche grazie alla disdicevole pratica dell’obsolescenza programmata e chi ha dovuto sostituirli si è spesso dovuto rivolgere ad Amazon. Chi stava a casa ha comprato libri e li ha comprati tramite Amazon. Ha voluto darsi al consumo di film e serie per ammazzare, giustamente, il tempo e lo ha fatto tramite Amazon Prime Video. Oppure lo ha fatto tramite un account di Netflix, che non è di Amazon ma che basa tutto il suo sistema sulla piattaforma di cloud computing AWS. Che è di Amazon.

Google è conosciuto come un motore di ricerca. Non è così: Google fornisce un ecosistema digitale perfettamente integrato. Gratuito per gli utenti privati, a pagamento per quelli aziendali e pubblici. Al momento è la piattaforma che sta guadagnando dall’improvvisa implementazione della teledidattica: si è “responsabilmente offerta” di fornire la piattaforma di teledidattica Google Scholar a scuole di ogni ordine e grado che dovevano portare avanti la didattica in una situazione che non erano in grado di gestire internamente. In cambio? In cambio ogni studente e ogni docente deve avere un account su Google, che probabilmente utilizzerà anche per i suoi scopi privati (scambio posta, storage remoto di dati tramite Google Drive, navigazione spaziale tramite i servizi maps, ricerche sul web, eccetera). Da questo Google ottiene dati, ovvero la materia prima per il suo modello di business: la raccolta, la trasformazione e la vendita di dati digitali. Chi usa massicciamente i servizi di questa azienda offre a questa la possibilità di mettere a valore tutta la sua vita.

Molte piccole e medie imprese si trovano nella necessità, ora, di decidere come gestire i flussi di lavoro non manifatturiero nel prossimo anno. Non possono essere esclusi nuovi ritorni di fiamma di questa pandemia che porterebbero a nuovi lockdown generalizzati. Queste aziende dovranno decidere su quali piattaforme basare la gestione dei loro dati aziendali e probabilmente finiranno per rivolgersi alle suite per aziende di Google. Quelle più grosse, che hanno possibilità di fare investimenti o li hanno già fatti, terranno internalizzati questi servizi, anche per tutela dei propri dati, facendo investimenti sulle proprie infrastrutture digitali. Quelle piccole difficilmente faranno questa scelta, vuoi per mancanza di liquidità, vuoi per mancanza di una vera e propria cultura digitale tra i dirigenti.

Inutile dire che, in ogni caso, il costo di queste ristrutturazione massicce verrà scaricato sui lavoratori, a meno di una mobilitazione di massa. Le deroghe alle norme che regolano il lavoro a distanza sono state decise dal governo e hanno permesso alle aziende che ricorrevano a queste nuove forme di lavoro di imporre, ad esempio, l’utilizzo di computer privati e connessione pagate di tasca dai propri dipendenti. Allo stesso sono è rimasta sospesa nel limbo la questione della copertura INAIL per infortuni durante l’orario di lavoro. Lo stesso orario di lavoro si è, in alcuni casi, allungato ben oltre le canoniche otto ore ed è passato il pernicioso concetto di reperibilità continua. Il lavoro a distanza svolto in questo modo rischia di mettere in crisi lo stesso concetto di assenza per malattia e già ci vediamo padroncini e quadri mandare ai sottoposti messaggi su whatsapp in cui dicono: “Ma sul serio sei così malato da non riuscire neanche a controllare le mail e a compilare un foglio excel? Neanche ti è richiesto di venire in ufficio…”. D’altra parte l’imposizione di queste forme di lavoro giustificate con l’emergenza hanno cancellato completamente il concetto di volontarietà del lavoro a distanza, che era invece un punto cardine della normativa.

Come si accennava in apertura a questo articolo si sta spesso facendo confusione tra telelavoro e smartworking usandoli come sinonimi. In realtà sono due concetti differenti tra di loro. Il telelavoro è semplicemente una remotizzazione della postazione lavorativa al di fuori dell’ufficio. Orario di lavoro, gestione delle pause, gestione del flusso di lavoro rimangono invariate.

Lo smartworking invece è un modello che si richiama a una gestione del flusso di lavoro delegata al singolo lavoratore o – al più – al team di cui fa parte. Viene affidato un obbiettivo ed una scadenza temporale, la gestione del lavoro all’interno di questa cornice è affare del lavoratore e non dell’azienda. È un modello che, in taluni casi, ha degli indubbi vantaggi per il lavoratore che, se dotato degli adeguati rapporti di forza individuali e collettivi, può gestirsi meglio la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, evitare il pendolarismo, lavorare con orari gestiti con maggiore libertà. Ha però un doppio filo della lama: riapre pericolosamente le porte al cottimo.

Viene da domandarsi se andiamo verso una direzione in cui si creeranno due categorie di lavoratori: alcuni, poco specializzati, che lavoreranno in telelavoro, con il suo carico di stress e alienazione da più persone denunciato, altri, più specializzati e difficilmente sostituibili, invece si avvantaggeranno di forme di smart working ma sempre con la spada di Damocle di una richiesta di maggior rendimento e produttività – sentiamo già dire: siamo in crisi, è tempo di sacrifici – da parte dell’azienda, pena il declassamento. In ogni caso entrambe queste forme si dovranno basare su un ricorso massivo alle infrastrutture digitali, gestite internamente dall’azienda o prese a nolo da qualche piattaforma.

A quel punto il sogno totalitario dei Signori dei Dati potrà prendere forma: fare passare attraverso i propri sistemi i flussi di dati che sono l’astrazione delle esperienze individuali. C’è chi lavorerà su piattaforme fornite da Google, o chi per esso, alle aziende e finito l’orario di lavoro continuerà ad usare le stesse piattaforme per uso privato. Una gigantesca mole di dati che queste piattaforme potranno estrarre, modellare e mettere a valore.

C’è chi è convinto che questa crisi rappresenti l’inceppamento definitivo del motore del capitalismo: produzione e consumo vengono colpite contemporaneamente e manca la distruzione delle forze produttive classiche di quella “distruzione creativa” che il capitalismo generalmente realizza mediante le guerre. Mancherebbero le basi per un nuovo ciclo di accumulazione: il capitalismo comincerebbe a girare a vuoto prima di gripparsi. Ma siamo certi che sia così? L’espansione dell’economia dei dati, che si reggono su di un modello estrattivista, potrebbero segnare un nuovo passaggio di fase. Siamo certamente di fronte a una biforcazione catastrofica e nuovi modelli dovranno emergere.

lorcon

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