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Pil, Covid e altre disgrazie

Pil, Covid e altre disgrazie

Tra le miriadi di analisi più o meno improbe che si sono succedute dall’inizio della pandemia ce ne sono molte che non meritano di essere lette, perché infarcite di ogni sorta di ridicolaggine complottista, altre sono banali supposizioni prive di qualsiasi buonsenso. Ce ne sono alcune che pur di malavoglia vanno lette e prese maledettamente sul serio. Non è un atteggiamento masochista questo: vi sono enti e organismi che quando pubblicano un bollettino, un report o un memorandum polarizzano il lavoro di governi, agenzie e operatori finanziari. Si tratta delle pubblicazioni del FMI, della Banca Mondiale e della BCE, poi a livello nazionale ci sono i bollettini e i report di Bankitalia e delle varie organizzazioni bancarie. Queste pubblicazioni periodiche forniscono, nel bene e nel male, non tanto e non solo una fotografia dello stato attuale dei fattori macroeconomici, ma elaborano proiezioni per il futuro prossimo. Su queste proiezioni si attuano le strategie governative di tenuta economica.

Non vanno ovviamente visti come oracoli ma il portato di disgrazie sulla pelle di noi comuni mortali è sempre abbastanza pesante. Tra il FMI che ci prospetta un sonoro -8.9% di PIL e la BCE che cerca di dare una prospettiva di crescita alla luce delle disposizioni anti-covid, nel mezzo ci sono le esigenze reali di un paese sull’orlo del baratro socio-economico.[1] Nella fattispecie, la BCE ha previsto due scenari, uno soft e uno hard: il primo prevede un contenimento della pandemia in tempi brevi, l’altro un ritorno a misure drastiche di chiusura con tutto il portato di un ritardo nella ripresa economica.[2] Come ogni parziale deragliamento dalle previsioni ci ha insegnato negli ultimi anni, dovremo prepararci a un altro giro di vite lacrime e sangue. Spiegare come stia avvenendo la ripresa al di là dei tecnicismi macroeconomici non è cosa assai semplice ma, se abbandoniamo per un momento la consultazione delle pubblicazioni e apriamo l’uscio di casa, forse possiamo farci un’idea di quel che accade.

Da un lato abbiamo la produzione che non può essere fermata – è uno degli assiomi che useremo in queste righe per cercare di immedesimarci in chi decide il da farsi – dall’altro abbiamo una serie di strumenti per incentivare la “produzione di investimenti”. Sembra una cosa bizzarra ma l’investimento è un prodotto come un altro, solo che non si consuma come un chilo di pane o come un’automobile; alla fine della sua esistenza programmata sarà servito da moltiplicatore di interessi per qualcuno e di debiti per qualcun altro. Va ricordato un assioma (questo sì, vero e inossidabile) che l’economia è un gioco a somma zero, ossia c’è chi vince e c’è chi perde, solo che è stato costituito un sistema mastodontico e complesso per far vincere sempre gli stessi. Ora, guardando oltre l’uscio di casa, magari non si riescono a scorgere facilmente gli incentivi agli investimenti a meno di non abitare vicino ai siti di trivellazione o in prossimità di grandi opere e cantieri vari, è però possibile vedere gli effetti dell’impossibilità di interrompere la produzione: le fabbriche aperte.

Il guaio è che il concetto di fabbrica non è qualcosa che si possa immaginare di chiudere dietro a un reticolato o dentro a un capannone, non era così nell’Ottocento e a maggior ragione non lo è oggi. La produzione necessita di una complessa organizzazione dentro e fuori il perimetro dell’opificio, si mettono in moto trasporti, logistica, servizi ausiliari e accessori alla produzione e al management, ecc. cioè un nugolo di addetti che fisicamente si spostano dal proprio alloggio in un altro luogo. Questo la dice lunga sul numero reale di persone che gravitano attorno ad un settore industriale e la dice altrettanto lunga sull’efficacia reale di un lockdown che tiene però fuori l’industria in tutte le sue pieghe e sfaccettature. Sempre guardando fuori dall’uscio ci si sarà probabilmente resi conto della differenza nel paesaggio fra primo lockdown e quest’ultimo: le strade deserte sembrano un ricordo lontano rispetto alle attuali zone rosse. Questo sostanzialmente è dovuto a una combinazione di “necessità” tutte economiche le quali hanno operato da dissuasori imponendo una scelta. Alcune attività non possono essere fermate, altre si possono mandare al macero.

Cosa accade quindi nella realtà quotidiana? Accade che per far lievitare il PIL si punta a quelle attività più incisive che in un certo senso pesano maggiormente nella bilancia di produzione di ricchezza. Il cavallo vincente è sempre quello che punta all’estero, l’esportazione pesa per un buon 30% sul PIL, quindi avanti tutta! In barba alle norme anti covid. Smontiamo un altro piccolo punto di incomprensione nella narrazione da tabloid che spesso si fa sulle attività produttive. Generalmente, nelle aziende i principi di profilassi anti contagio si suppone vengano rispettati – teniamoci per buona questa ipotesi – ma è pur vero che per recarsi al posto di lavoro non tutti hanno un mezzo proprio, soprattutto per quanto concerne la bassa manovalanza che opera tra gli ingranaggi della produzione, facchini, addetti alle pulizie, ecc. Questi, soprattutto nei centri urbani maggiori, viaggiano sui mezzi pubblici che sono ben lungi dal viaggiare a “mezzo carico”. Non c’è bisogno di essere dei clinici per capire che in una metropolitana affollata, usare la mascherina è come aprire l’ombrello sotto le cascate del Niagara.

Appare quindi logico o quanto meno plausibile che il mantenimento di settori produttivi “strategici”, dove per strategia deve leggersi come un paracadute contro il crollo del PIL, nei fatti vadano a implementare la diffusione dei contagi. Con tutto quel che ne deriva – in altre parole un impatto negativo su tutto il resto delle attività non industriali, chiusura di attività commerciali in primis.

Che piacciano o no, i bottegai costituiscono un comparto crescente di attività, che hanno sostituito le micro imprese artigianali con boutique, birrerie, franchising di vario genere, art studios, ecc.[3] Ora con la pandemia queste attività hanno ricevuto un colpo tremendo e si cominciano a contare le vittime in termini di attività chiuse sine die. Questo scenario non è che l’epifenomeno di quello che sta montando: se da un lato la scelta di tenere attive alcune attività a scapito di altre ha mandato in frantumi delicati equilibri di microeconomia locale tirandosi dietro fattori a livello macro, dall’altro lo tsunami del debito deve ancora scorgersi all’orizzonte. La scelta di non chiudere tutto per un paio di mesi e allentare il contagio ha implicato un esborso di denaro per tentare di sostenere tutte quelle attività che sostanzialmente da ottobre non hanno più visto un giorno di apertura. Unito a ciò c’è l’indebitamento colossale del recovery fund che sosterrà invece il lato finanziario. Orbene non occorre essere Milton Friedman o sir John Maynard Keynes per capire che scostamenti di bilancio da un lato e nuovo debito con “l’Europa” (in realtà il debito è sempre coi mercati) non porterà altro che un periodo post covid-19 di austerity e ulteriore vendita di pezzi di welfare al miglior offerente.

Tutto ciò è possibile capirlo e anticiparlo, non serve un aruspice o Nostradamus, basta leggere. È tutto scritto nero su bianco e ben corredato da grafici, proiezioni, stime e memorandum su percentuali ottimali di pressione fiscale, deregulation o ritocchi alle norme sul lavoro e sulla contribuzione. Non dobbiamo ad esempio dimenticare come il sistema capitalista agisca spesso e volentieri alla luce del sole e senza neanche tentare di nascondere decisioni amare. Lady Thatcher disse candidamente che sarebbero state necessarie lacrime e sangue per rimettere in piedi il paese, così come Draghi mandò una bella lettera al premier Berlusconi nella quale illustrava la strategia per dare credibilità al debito italiano – eravamo nel pieno del meccanismo di salvataggio del quantitative easing, il periodo della famosa frase “salvare l’economia a qualunque costo”.[4] Ha operato talmente bene che ora siede sulla poltrona di primo ministro. Non dobbiamo dimenticare cosa accadde all’indomani della grande recessione, la crisi di liquidità, i Tremonti Bond mai arrivati a chi dovevano arrivare e serviti invece per ridare ossigeno al sistema speculativo che aveva, di fatto, causato la crisi.

Dalla pandemia ci salveremo, ma dalla crisi economica che ne sta derivando ne usciremo con le ossa rotte e probabilmente con un arretramento della capacità di conflitto mai vista negli ultimi trent’anni. Mala tempora currunt!

J.R.

NOTE

  1. International Monetary Fund. 2021. World Economic Outlook: Managing Divergent Recoveries. Washington, DC, April 2021.
  2. BCE, Sintesi del bollettino annuale 2021, Proiezioni macroeconomiche per l’area dell’euro, consulta bile all’indirizzo: https://www.ecb.europa.eu/pub/projections/html/ecb.projections202009_ecbstaff~0940bca288.it.html per una consultazione puntuale si consiglia la lettura del, Bollettino economico, numero 1 / 2021

  3. Cfr. J.R., “Contraddizioni e speculazioni” https://www.umanitanova.org/?p=13357

  4. Lettera Draghi-Trichet, https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D

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