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La pandemia e la guerra

La pandemia e la guerra

Se si riflette sulle posizioni che oggi caratterizzano la discussione su come affrontare la situazione sanitaria nella scuola – ritengo però che quanto mi pare di rilevare valga per l’assieme della società – ciò che in primo luogo colpisce sono i toni, le passioni, le spaccature che si determinano nei tradizionali schieramenti, i cambiamenti che mettono in discussione convincimenti maturati nei decenni e ciò vale, va detto con più franchezza che discrezione, anche per la nostra area.

Fatto salvo che le differenze sono enormi e che innegabilmente la situazione attuale è, ad oggi, decisamente meno tragica, penso sia utile fare una comparazione con quanto avvenne con la prima guerra mondiale. Di fronte a una catastrofe quale è quella determinata dal Covid-19 fra i lavoratori e le lavoratrici della scuola, gli studenti e le studentesse, i genitori, si determinano – ovviamente è una semplificazione – due schieramenti che prescindono dalle precedenti appartenenze, posto che precedenti appartenenze vi fossero: chi ritiene necessaria una clausura a tempo indeterminato e il conseguente ricorso alla didattica a distanza (DaD) e chi la ritiene, per un verso, impraticabile e, per altri versi, persino pericolosa.

Ciò che colpisce, lo ripeto, è il fatto che il confronto – posto che confronto vi sia dato che spesso assistiamo a un dialogo fra persone che non si ascoltano a vicenda – assume toni tanto più aspri quanto più gli interlocutori hanno sovente, sino al determinarsi della situazione attuale, condiviso gli stessi orientamenti. Di colpo compagni e compagne che hanno sempre guardato con ostilità o, almeno, con attitudine critica all’azione dei governi e all’intromissione statale nella vita delle persone chiedono un’azione governativa dura e determinata, controlli sulla popolazione, l’obbligo di assumere i vaccini, ecc. scontrandosi con chi pone l’accento sull’evidente rischio di una deriva autoritaria che misure di questa fatta e l’indebolimento delle relazioni sociali favoriscono.

Anche la catastrofe attuale può però essere un’occasione di verifica della tenuta delle ipotesi sulle quali si è lavorato nel tempo e, nello stesso tempo, di rielaborazione e di adeguamento di queste stesse ipotesi. Proviamo, a questo proposito, a pensare alla scuola, non alla scuola del Covid-19 ma alla scuola prima del Covid-19, a una scuola che ha visto un taglio delle risorse assolutamente rilevante e un degrado che la rende inadeguata ad affrontare l’epidemia.

Da questo punto di vista, è assolutamente evidente che la pandemia non fa che confermare la correttezza delle rivendicazioni tradizionali dei settori radicali dei lavoratori della scuola, dalla riduzione del numero di alunni per classe alla necessità di un organico adeguato, dall’urgenza di investimenti nell’edilizia scolastica a quella di garantire un trasporto pubblico all’altezza delle necessità agli studenti e ai lavoratori della scuola. D’altro canto, i fautori senza se e senza ma della chiusura delle scuole potrebbero rispondere a chi pone l’accento sulla necessità di una mobilitazione per la difesa e la riqualificazione della scuola pubblica che il Covid-19 c’è oggi e che sono necessarie misure immediate, e che l’unica misura efficace per porre limite all’epidemia è, appunto, la chiusura e se lo facessero avrebbero molte ragioni. In altri termini l’emergenza, l’esigenza di risposte immediate sembrano inevitabilmente contrastare con la progettualità e la capacità di guardare al futuro.

Per uscire da questa dialettica bloccata e improduttiva credo sia opportuno tornare al parallelo fra guerra ed epidemia. Di fronte alla catastrofe, infatti, la domanda è se è possibile e utile immaginare una sorta di sospensione del conflitto sociale nella fase dell’epidemia che andrebbe affrontata con la clausura rimandando al poi lo scontro con l’avversario. È mia opinione che, invece, non solo per una scelta etico-politica, crisi sanitaria e crisi sociale sono strettamente e immediatamente intrecciate e che immaginarle come questioni separate sia non solo sbagliato ma, semplicemente, impossibile. Provo a fare un passo indietro, ricordando alcune vicende che, nei loro limiti, abbiamo già vissuto.

Nella scorsa estate le lavoratrici delle mense scolastiche e delle mense FIAT, dipendenti dalle cooperative, si sono mobilitate per denunciare il fatto che era stata loro negata la retribuzione nei mesi estivi, una retribuzione già di regola indecente. A settembre, in piena pandemia, abbiamo assistito a mobilitazioni dei precari della scuola contro una gestione sciagurata del reclutamento: solo a Torino centinaia di precari hanno dato vita a una dozzina di presidi contro la gestione sciagurata del reclutamento. Lo scorso anno ha visto la nascita di un movimento dei lavoratori dello spettacolo, un mondo che come soggetto collettivo non godeva sino a quel momento dell’attributo dell’esistenza, che pone con forza la rivendicazione di un reddito a fronte del blocco del settore in cui lavorano.

Potrei proseguire, ma quanto ho rammentato serve solo a ricordare che la questione del reddito è di una rilevanza tale da determinare, comunque e nonostante le evidenti difficoltà, una presa di parola e una disponibilità ad agire che non va sottovalutata. Non si tratta di una scelta “rivoluzionaria” ma dell’irrompere sulla scena della questione sociale nelle sue forme più immediate, parziali, frammentarie ma non per questo meno importanti.

Se, poi, pensiamo al piccolo fatto che a marzo scade il blocco dei licenziamenti e che la cosa riguarda molte centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori, appare evidente che siamo di fronte, non solo a livello nazionale, alla più grave crisi da quella del 1929. La catastrofe, dunque, può determinare passività, arretramento, atomizzazione, richiesta dell’intervento dello stato, una richiesta che trova un limite oggettivo nella situazione del debito pubblico e nell’andamento dell’economia, al fine di rispondere alla sofferenza sociale.

La stessa catastrofe può però liberare energia, azione, riflessione, critica dell’esistente. Dal nostro punto di vista si tratta di scegliere: la pandemia come sospensione del conflitto sociale o la pandemia come disvelamento dell’intollerabilità dell’esistente, come occasione di critica radicale, come territorio da attraversare con la lotta e l’organizzazione.

Proviamo ora a tornare alla questione scuole aperte/scuole chiuse. Ritengo che sia offensivo per l’intelligenza di chi legge sottovalutare le molte e buone ragioni dei fautori della clausura. Proprio mentre stendevo queste note ho ricevuto una lettera di una collega e amica che, a questo proposito, mi scrive: “Io faccio lezione con cappotto, sciarpa, cappello, e mascherina, davanti alla finestra aperta. Non sono sicura che questa sia ‘scuola’ o non lo è più della DaD. Però non riesco a trovare una sponda organizzata che dia sostegno alle mie preoccupazioni così come a quelle di tante altre persone. Quasi tutti i miei colleghi (…) sono arrabbiati, frustrati e preoccupati. (…) Personalmente penso che tenere aperte anche elementari e medie sia un modo per prolungare la pandemia all’infinito e il solo sentire parlare della ‘perdita’ di apprendimento (e di PIL) mi fa diventare violenta”. Una lettera che aiuta, almeno per quel che mi riguarda, a capire in quale situazione molti lavoratori della scuola vivano e come la percepiscano.

Mi domando però anche se a una domanda le cui ragioni sono pienamente condivisibili segua una risposta altrettanto condivisibile. Sono, infatti, da valutare le spaccature che una scelta come la clausura apre, quella fra docenti intanto, quella con i settori degli studenti fautori della scuola aperta, quella con i genitori che non saprebbero come seguire i figli mentre sono al lavoro, quella con i lavoratori delle altre categorie che vedrebbero la chiusura della scuola come l’ennesimo “privilegio” e che, in questo caso, qualche ragione l’avrebbero.

È da valutare, mi ripeto, il fatto che la pura e semplice richiesta della chiusura rimanda a un’attitudine passiva, si chiede al governo di risolvere il problema, dixi et salvavi animam meam. La scommessa da fare è, invece, quella di individuare quanto può unire insegnanti, studenti, genitori contro governo e padronato, un percorso non facile ma necessario se non vogliamo ridurci a una batracomiomachia dannosa e ridicola di cui, purtroppo, vedo molte manifestazioni.

Quello che mi sembra, nello stesso tempo, necessario e inevitabile è lo sviluppare in conflitto dentro la crisi su quattro piani:

1. La mobilitazione immediata a partire dalle lotte che pure si danno, lotte certamente puntuali, locali, aziendali i cui limiti vanno superati sapendo che, per superarli, bisogna essere presenti in un ruolo attivo di proposta, organizzazione, orientamento;

2. La proposta di piattaforme generali sul reddito, i servizi, la difesa della libertà in un momento in cui il governo, (basti pensare all’accordo sull’esercizio del diritto di sciopero nella scuola fra governo e CGIL CISL UIL) opera per legare le mani ai lavoratori;

3. La denuncia della natura strutturale delle contraddizioni che viviamo e l’aperta affermazione del fatto che una società mercantile e gerarchica in cui il profitto e gli interessi delle classi dominanti è la vera causa di quanto avviene;

4. In concreto, e per quel che riguarda la scuola, si tratta di operare con forza per garantirne la sicurezza, per imporre la chiusura ovunque vi siano dei rischi, per le assunzioni del personale necessario, per imporre la riduzione degli alunni per classe, per organizzare la scuola stessa in modalità diverse dall’attuale modello tratto dai carceri e dalle caserme.

In estrema sintesi, si tratta di proporre e praticare con l’azione e non con la semplice propaganda il nostro programma generale che se sentiamo giusto in situazioni “normali” lo è ancora di più di fronte alla crisi.

Cosimo Scarinzi

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