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Di fascismo in fascismo. Il sindacalismo di stato pilastro dello stato autoritario.

Di fascismo in fascismo. Il sindacalismo di stato pilastro dello stato autoritario.

Esiste oggi un governo fascista in Italia? La risposta a queste domande può essere trovata riflettendo su che cosa è stato il regime fascista, quali sono stati i suoi caratteri e chiedendoci se il governo italiano attuale li ripropone.

Il periodo in cui si afferma il fascismo, gli anni ’20 del secolo scorso, è un periodo di crisi dell’imperialismo che porta con sé una crisi dei concetti proclamati e diffusi dall’ideologia borghese dell’800 ed accolti in parte anche del socialismo. L’imperialismo e la sua crisi aprirono la via a nuove concezioni del mondo e della vita tra le quali prevalsero, in varie forme, l’attivismo imperniato sul primato della volontà sulla ragione e dell’azione sul pensiero, un attivismo propenso a giustificare la violenza in nome di miti imperialistici, nazionalistici e razzisti.

Questa crisi fu particolarmente grave in Italia: si diffusero fra la media e la piccola borghesia il culto della violenza, l’esasperazione nazionalistica, la retorica patriottarda di stampo dannunziano, il rancore antisocialista e antiproletario.

La base materiale di questa svolta ideologica si può rintracciare nel rallentamento crescente del processo di produzione capitalistico che si ebbe all’inizio del secolo, dimostrato dalla riduzione dei margini di profitto, elemento che è stato anche alla base dello scoppio del conflitto mondiale. Mano a mano che il modo di produzione borghese si dimostra incapace di soddisfare i crescenti bisogni delle masse, rivelando al tempo stesso la grossa bugia che si nasconde dietro l’apologia dell’economia di mercato e del suo spirito libertario ed egualitario, le classi dominanti e i governi sono costretti ad usare altri mezzi per impedire alle classi sfruttate di ribellarsi. È all’interno di questo processo che il rapporto di produzione capitalistico rivela il suo aspetto brutale di rapporto di dominio e la violenza legale e illegale delle classi privilegiate si riversa sulle classi sfruttate e sulle loro organizzazioni politiche, sindacali e culturali.

Il fascismo al potere può essere definito come un regime reazionario di tipo nuovo. Infatti il fascismo ha con la struttura dello stato precedente un rapporto che è al tempo stesso di continuità e di rottura. Lo Statuto albertino (la costituzione del Regno d’Italia fino al 1946) rimase in vigore e con esso i privilegi della monarchia, ma fu profondamente trasformata la prassi costituzionale anche con modifiche legislative. D’altra parte gli stessi governi liberali adottarono una prassi essenzialmente autoritaria sia nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio, sia nei confronti delle autonomie locali; prassi che il fascismo ha fortemente accentuato.

Il fascismo abolì completamente quelle forme di libertà che lo statuto albertino aveva riconosciuto, sia pure spesso solo formalmente. In particolare il fascismo soppresse completamente la libertà sindacale e le libere organizzazioni dei lavoratori, sostituendole con una forma di sindacalismo di stato, nell’ambito del quale le organizzazioni padronali ebbero di fatto un peso maggiore di quelle dei lavoratori.

Nel 1925 fu firmato a Palazzo Vidoni, in Roma, un accordo tra la Confindustria e i sindacati fascisti, alla presenza di Farinacci, segretario del Partito Nazionale Fascista. L’accordo stabiliva che le due parti si riconoscessero la rappresentanza esclusiva, rispettivamente, degli industriali e degli operai; in tal modo tutti i rapporti contrattuali sarebbero intercorsi solo fra le organizzazioni dipendenti dalle due confederazioni; si stabiliva inoltre che le commissioni interne fossero abolite. Questo accordo gettò le basi del sistema corporativo.

Quattro giorni dopo, il Gran Consiglio del fascismo deliberò che i sindacati, sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori, dovevano essere riconosciuti e controllati dallo Stato, ed il riconoscimento poteva essere dato solo ai sindacati fascisti. I sindacati riconosciuti erano i soli abilitati a stipulare contratti collettivi con effetto obbligatorio per tutti. I conflitti di lavoro sarebbero stati composti da un organo giurisdizionale emanato dallo Stato, la Magistratura del lavoro, che avrebbe fatto osservare i contratti collettivi regolarmente stipulati dai sindacati regolarmente riconosciuti; l’intervento della magistratura del lavoro era però condizionato dall’adesione delle due parti nel rivolgersi ad essa.

Gli altri sindacati non riconosciuti potevano continuare ad esistere come associazioni di fatto, e di fatto sopravvissero qualche mese. La Confederazione Italiana del Lavoro (cattolica) si sciolse di fatto nel novembre 1926, la CGL nel gennaio del 1927. L’Unione Sindacale Italiana era già stata costretta alla clandestinità da un decreto di scioglimento del prefetto di Milano del 7 gennaio 1925, pochi giorni dopo il secondo colpo di stato di Mussolini, che definiva l’USI “organizzazione politica sovvertitrice e antinazionale”.

La Confindustria fu pronta ad adeguarsi alle direttive del governo: nel novembre 1925 assunse la denominazione di Confederazione generale fascista dell’Industria italiana. Nel gennaio 1926 Stefano Benni, presidente della Confindustria, e Gino Olivetti, segretario, presero la tessera del partito fascista e divennero membri del Gran Consiglio del fascismo in rappresentanza dell’organizzazione dei capitalisti industriali, ormai ufficialmente inserita nel regime.

Per completare il quadro, la legge 563 del 3 aprile 1926 vietò lo sciopero.

Le conseguenze sulla condizione della classe operaia non si fecero attendere.

Il fascismo, inizialmente espressione di gruppi medio e piccolo borghesi e poi di forti gruppi agrari, fu dopo il 1922 e più ancora dopo il ’25 sostenuto da un blocco (non sempre compatto ma nel complesso solido) di forze borghesi, nel quale prevalsero i gruppi industriali e finanziari più potenti. Ad essi il fascismo assicurò un ambiente favorevole sia per le già citate misure contro le organizzazioni del movimento operaio, sia per i costanti finanziamenti e i progetti di sviluppo industriale, sia fornendo un ampio mercato costituito dalle commesse pubbliche, dalle avventure coloniali e dalle spese militari.

Nel consolidamento del blocco di potere borghese che sosteneva il fascismo ebbe un ruolo decisivo la battaglia per “quota 90”. Nel 1926 la lira era arrivata ad un rapporto di cambio di 155 lire italiane per una sterlina, mentre nel 1922 ci volevano solo 90 lire per comprare una sterlina. In realtà la rivalutazione della lira fu la scusa per imporre una drastica riduzione dei salari e il prolungamento della giornata lavorativa. Mussolini si dette come obiettivo quota 90 perché non voleva che si dicesse che con l’avvento del fascismo la lira avesse perso valore. L’operazione fu facilitata da massicci prestiti internazionali, soprattutto inglesi e statunitensi: la grande finanza internazionale e i rispettivi governi appoggiarono la politica di stabilizzazione del fascismo. Anche se per alcuni settori l’operazione provocò una crisi, il rafforzamento della lira si risolse a vantaggio dei gruppi più grandi e complessivamente modificò in favore dei capitalisti e degli agrari i rapporti di forza tra le classi.

Nell’ambito di questa operazione, fu decisa nel maggio del 1927 una prima riduzione generalizzata dei salari del 10%, mentre una seconda, sempre del 10%, fu decisa nell’ottobre, grazie ad un accordo interconfederale promosso dal Partito fascista.

Il fascismo fu dunque un regime di conservazione sociale, conservazione sociale che si poteva ottenere solo reprimendo il livello raggiunto dal movimento operaio sia come tenore di vita delle classi sfruttate, sia come organizzazione, sia come capacità politica. In questo senso la conservazione sociale, cioè il mantenimento della proprietà privata dei mezzi di produzione nelle mani di una ristretta cerchia di capitalisti, era possibile solo attraverso la reazione antioperaia. Regime reazionario dunque, ma di tipo nuovo, perché, soprattutto dal 1925 in poi, il fascismo mirò ad allargare la base sociale dello Stato e attenuare il distacco fra la classe dominante e le masse, che dovevano comunque sempre rimanere subordinate e passive. Per ottenere questo risultato, il governo fascista usò vari strumenti, via via perfezionati nel corso degli anni Trenta: l’esaltazione del presidente del consiglio (il “duce”), il mito del corporativismo come superamento del socialismo e del capitalismo, la ruralizzazione e la bonifica integrale, l’espansione imperialistica compendiata nella formula del “posto al sole”.

Il rapporto del regime fascista con le masse è l’elemento che ci consente di caratterizzarlo come regime tendenzialmente totalitario. Da questo punto di vista il fascismo come regime reazionario di tipo nuovo, è stato un modello per gli altri stati che hanno adottato regimi simili, a partire dalla Germania. Mussolini al potere ha favorito la formazione di regimi ispirati al fascismo non solo in Germania e in Spagna, ma anche nei Balcani, in Europa orientale, nei paesi arabi, in Giappone e in America Latina. Tuttavia il fascismo non è divenuto un regime completamente totalitario per la presenza di altri poteri ugualmente reazionari, ma che limitavano l’onnipotenza del governo, come il centro mondiale della Chiesa cattolica e la stessa monarchia.

Lo strumento principale di controllo delle masse fu il controllo statale dei sindacati, avvenuto in varie forme in tutti i paesi imperialistici. Quello che distingue il fascismo è l’uso della violenza nei confronti degli organizzatori sindacali e la struttura autoritaria che ne deriva; per questo aspetto il fascismo ha svolto un ruolo di esempio anche per altri paesi, come la Germania e la Spagna, accompagnato dall’azione propagandistica del fascismo stesso, che ha sostenuto in varie forme i movimenti ad esso ispirati.

La caduta del fascismo non ha portato alla rinascita dell’organizzazione autonoma delle classi sfruttate, ma alla spartizione dei sindacati fascisti fra i partiti antifascisti. Oggi come ieri, i sindacati ufficiali sono integrati nello Stato e la loro azione sindacale si svolge all’interno degli obiettivi di politica economica definiti dal Governo, qualunque esso sia.

Gli accordi interconfederali sulla rappresentanza hanno costruito una gabbia attorno alla libertà di organizzazione sindacale e alla conflittualità sul posto di lavoro, unico strumento di tutela per le lavoratrici e i lavoratori.

La retorica sulla repubblica democratica e antifascista e sulla costituzione più bella del mondo ha permesso di perpetuare il controllo statale sulle organizzazioni sindacali, pesante eredità del fascismo. Che bisogno c’era allora, per le classi privilegiate, di abbandonare una narrazione che aveva permesso di ingabbiare i movimenti dal basso?

Da una parte abbiamo la crisi economica, che si trascina con occasionali sussulti dal 2008 e da cui il capitalismo internazionale non è in grado di uscire, dall’altra la necessità per i grandi gruppi finanziari e industriali di accaparrarsi tutte le risorse: sono motivazioni più che sufficienti per giustificare la scelta di un esecutivo composto da facce impresentabili, personaggi legati da complicità e parentele, un esecutivo che ha l’unico scopo di peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari, e distribuire i finanziamenti pubblici a favore dei gruppi monopolistici e dell’industria bellica; donne e uomini senza scrupoli, che hanno gettato alle ortiche la maschera ipocrita della democrazia e, indifferenti alle sofferenze e alla miseria che dilagano nel paese, pensano solo a rafforzare il proprio dominio per arricchire sé stessi e gli amichetti di turno.

In questo senso l’attuale governo riproduce la voracità e l’egoismo dei gerarchi del passato regime.

Tiziano Antonelli

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