- Questo evento è passato.
Torino: Nel centenario della strage di Torino Ricordo, fiori, musica…
18 Dicembre 2022 @ 15:30 - 18:00
ore 15,30
alla lapide di piazza XVIII dicembre
Per ricordare Pietro Ferrero e gli altri sindacalisti, anarchici, socialisti, comunisti massacrati dai fascisti.
La strage di Torino
Era il 18 dicembre del 1922. La Camera del lavoro era in Corso Siccardi, in pieno centro: in quel luogo, costruito con il loro contributo decisivo, gli operai della città si erano organizzati per prendere saldamente tra le mani il sogno concreto di una società senza sfruttati né sfruttatori. Era un simbolo del biennio rosso, dell’occupazione delle fabbriche, quando la classe operaia torinese, reduce dalla guerra, dalla fame, dalla militarizzazione della vita quotidiana, aveva deciso di fare la rivoluzione.
Due anni prima, il 1° settembre 1920, alle prime luci dell’alba tredicimila operai occupano la Fiat Centro. Un altro stabilimento Fiat di prima importanza, le Ferriere, vera roccaforte anarchica tra le industrie cittadine, viene preso nello stesso momento, insieme a decine di impianti della stessa azienda e di altri proprietari. In pochi giorni vengono occupate ed autogestite tutte le fabbriche torinesi. All’interno si lavora, per dimostrare con i fatti che tutto funziona senza padroni, si fanno turni di guardia armati per impedire l’ingresso della polizia, i cui attacchi vengono respinti.
Piero Gobetti la definirà “la prova del fuoco della maturità degli operai torinesi», “il primo atto pratico della rivoluzione sociale”, scriveva Malatesta.
Pietro Ferrero, l’anarchico segretario della Fiom, in comizio di quello stesso giorno sostiene l’occupazione degli stabilimenti e l’autogestione operaia dei Consigli contro l’orientamento della Fiom nazionale e della Cgl rette dai socialisti riformisti.
Dieci giorni dopo il movimento si era esteso ad altre città e ad altri settori produttivi ed aveva organizzato l’autodifesa.
Ma a Milano la dirigenza Cgl e del PSI decretano la fine dell’occupazione.
Quando gli operai in armi uscirono dalle fabbriche riconsegnandole ai padroni, Errico Malatesta, parlandone con Pietro Ferrero, disse che i padroni l’avrebbero fatta pagare cara a chi li aveva fatti tremare.
Nel dicembre del 1922, non erano passati nemmeno due mesi dalla marcia su Roma, i fascisti erano pronti a presentare il conto alla classe operaia di Torino.
Dalla fine di ottobre Mussolini è già di fatto al potere. Il 16 novembre ottiene la fiducia alla Camera dei deputati, accentrando nelle sue mani i ministeri degli Interni e degli Esteri. Aveva subito ricevuto le vive congratulazioni di Agnelli, ormai prossimo alla nomina a senatore del Regno, il cui più stretto collaboratore, il direttore generale e membro del Cda della Fiat Giuseppe Broglia, si era iscritto al Fascio di Torino prima della Marcia, divenendone il segretario amministrativo.
Ma Torino, nonostante i continui attacchi a compagn* e sedi, non era ancora sotto controllo fascista.
Domenica 17 dicembre, capeggiate dal federale Brandimarte, calano sulla città centurie squadriste da tutto il Piemonte, dall’Emilia e da altre province del Nord. Un tranviere comunista, Francesco Prato, risponde al fuoco di due fascisti, uccidendoli. È il pretesto per scatenare l’attacco.
La città dei consigli operai, la città dell’occupazione delle fabbriche, la città che ha fatto paura alla borghesia deve pagare. Le liste di proscrizione sono pronte da un pezzo, fornite dagli industriali e dalla Questura. Gli operai comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti che più si sono spesi per la causa proletaria e la rivoluzione devono ricevere una punizione esemplare, definitiva.
La mattina del 18 dicembre tremila squadristi dilagarono per la città.
Una cinquantina di camicie nere fece irruzione nella Camera di Lavoro. Inizia così “La strage di Torino”.
La caccia all’uomo è strada per strada, casa per casa.
I fascisti pestano a morte, seviziano, uccidono a colpi d’arma fuoco decine di sindacalisti, anarchici, comunisti e socialisti. Alcuni vengono trascinati fuori dalle loro abitazioni, altri massacrati al lavoro o in strada.
La Camera del lavoro, con l’annessa sede di Uap e Uat e dei gruppi anarchici “Centro” e “Volontà”, violata dalla coorte “Randaccio” e dalle squadre “Battisti”, “Pini” e “Toti”, è per l’ennesima volta, l’ultima, assaltata e incendiata. Qui Pietro Ferrero viene riconosciuto e pestato a sangue, quindi legato ad uno dei camion dei sicari della borghesia e così trascinato lungo tutto corso Galileo Ferraris.
Il suo corpo straziato è abbandonato in Largo Vittorio Emanuele II, ai piedi del monumento al Gran Re, omaggio del fascismo trionfante alla ben grata monarchia.
Il suo corpo viene trovato da un passante. Il suo volto è completamente sfigurato per le sevizie subite: viene riconosciuto solo dalla tessera della Croce Verde, la numero 987. Ferrero oltre che sindacalista era stato attivo nell’Unione Anarchica Italiana e nella scuola Ferrer, una scuola per adulti, dove lavorator* spesso semianalfabeti, si assiepavano dopo lunghe giornate di lavoro, per appropriarsi di quel sapere che era stato loro negato.
Il bilancio della strage è di 11 morti e decine di feriti.
La Camera del Lavoro e una sessantina di sedi e circoli anarchici e socialisti erano stati dati alle fiamme.
Quello stesso tragico giorno la burocrazia riformista della Fiom nazionale decide di radiare e sciogliere la sezione metallurgica torinese, guidata sulla linea rivoluzionaria da Ferrero e dagli anarchici con i comunisti.
Gli stessi che avevano affossato la spinta rivoluzionaria del Biennio Rosso, mettono una pietra tombale sulla fossa scavata dai fascisti.
Ai funerali di Ferrero, il 20 dicembre, ci saranno una ventina di persone.
Gli operai della città si erano fatti sfuggire il sogno dalle mani. Dopo il buio della guerra, cala la notte della dittatura.
Ma. Tenaci e clandestini continueranno ad operare durante tutto il ventennio tre gruppi anarchici, quello di Campidoglio, quello di Barriera di Nizza e quello di Barriera di Milano. Saranno in prima fila nella Resistenza e nell’insurrezione della città.
Nel dopoguerra, Brandimarte, scampata la galera grazie all’amnistia di Togliatti, morirà nel suo letto e verrà sepolto con gli onori militari dall’esercito della Repubblica “nata dalla Resistenza”.
Ma gli anarchici non dimenticano.
La memoria di chi ha lottato ieri vive nelle lotte di oggi.
Fermare la marea della destra violenta ed autoritaria dipende dalla forza dei movimenti, dalla capacità di tenere saldamente nelle mani la prospettiva di un tempo senza oppressi né oppressori.